di Stefano Di Palma
Situata nel cuore del Parco Regionale dei Monti Simbruini, Vallepietra confina con l’Abruzzo e la provincia di Frosinone; la località è famosa per il santuario dedicato alla Santissima Trinità (in cui si espleta una profonda venerazione anche per sant’Anna) e vi confluiscono molti pellegrini provenienti anche dalla Ciociaria. Il luogo di culto è situato sul versante occidentale del Monte Autore, in un ripiano sul quale s’innalza una nuda parete rocciosa, detta la “Tagliata”, che lo accoglie in una grotta che si addentra per 15 metri nelle viscere della montagna.
Piene di incertezze sono le notizie relative alle origini del santuario visto che si conoscono diverse tradizioni che prevedono ad esempio la fondazione in epoca apostolica, oppure da parte di monaci orientali ivi rifugiatisi nel periodo dell’iconoclastia. Anche le ipotesi storiche sono varie: tra di esse si cita la fondazione come opera di san Domenico di Sora indicata seguendo alcuni passi dei biografi dell’Abate e comprovata dalla presenza nel sacro luogo di una pittura che lo raffigura. La leggenda nota a tutti è quella popolare. Si narra di un contadino che mentre arava il terreno in cima al colle della Tagliata vide precipitare nel vuoto due buoi e l’aratro; portatosi in basso vide, con grande stupore, i due animali sul piccolo ripiano ai piedi del precipizio incolumi e in adorazione del misterioso dipinto raffigurante la Trinità, apparso all’interno di una piccola grotta. L’aratro sarebbe rimasto impigliato sulla roccia a metà altezza dove, sino a pochi decenni fa, i pellegrini ritenevano di scorgerne un pezzo in un troncone sporgente (cfr. F. CARAFFA, 1969).
In verità poche sono le certezze cronologiche relative alla genesi del santuario. Sulla base delle evidenze archeologiche si è compreso che la grotta che lo ospita è stata già abitata in tempi preistorici e le testimonianze di epoca romana, a cui si riferiscono frammenti ed oggetti rinvenuti sul posto, si collegano all’esistenza di un sacello situato nella sua parte più interna e dedicato alle ninfe o ad altre divinità fluviali in rapporto con il diffusissimo culto delle fonti ritenute salutifere. Come in tanti luoghi, il culto cristiano ha sostituito gradualmente i riti pagani e, sulla base di altri rinvenimenti nel sito, si è pensato alla presenza di un monastero medievale. La prima apparizione del santuario nei documenti risale al 1294 dove risulta unito alla mensa della Cattedrale di Anagni. Dalla prima metà del secolo XVII il santuario diviene abbazia determinando in tal modo un continuo miglioramento delle condizioni del sito attuato dagli abati che si sono succeduti sino al secolo XIX (cfr. C. MEZZANA, 1943).
Il santuario è distribuito su due livelli. Il primo, nel piano inferiore, è costituito da un vano seguito da un antro che occupa tutta l’altezza della grotta e mostra la roccia viva delle pareti; questo spazio è denominato Grotta dell’Angelo o dell’acqua santa poiché un angelo vi avrebbe fatto scaturire una sorgente ritenuta miracolosa. Il cuore pulsante del santuario è costituito dalla cappella ubicata nel piano superiore, anch’essa scavata nella roccia, che ospita un gruppo di affreschi tra i quali si evidenzia quello veneratissimo raffigurante la Trinità. L’accesso ai due spazi è diverso ma unico è il prospetto, eretto in forme neoclassiche, che raccorda i due livelli; per accedere all’oratorio della Trinità i fedeli percorrono una scalinata sul lato destro mentre per uscire si usa quella del lato sinistro che viene percorsa retrocedendo lentamente con la faccia rivolta verso il sacro luogo secondo l’etichetta di omaggio del suddito al signore feudale.
Gli affreschi conservati nell’oratorio rappresentano una pagina di straordinario fascino in seno alla pittura rupestre medievale italiana ma anche un’enigmatica vicenda pittorica in cui la cronologia proposta dagli studiosi è mutevole come le maestranze che vi operarono. Queste pitture presentano in alcuni casi pesanti rimaneggiamenti e, specialmente nella parte inferiore, non ci sono pervenute per intero a causa di vari fattori quali l’umidità, le asportazioni, il fumo prodotto dai ceri accesi, lo strofinio delle mani ed i graffiti prodotti dai pellegrini.
Ad un primo gruppo, il più antico, si ascrivono le pitture della parete occidentale con la famosa Trinità, frammenti di un più esteso ciclo dedicato ai Mesi (sopravvivono Gennaio e Febbraio), parte delle Storie Evangeliche ed il riquadro della parete orientale con i due Santi (Domenico abate e Giuliano), datate tra i secoli XII e XIII (cfr. C. D’ONOFRIO, 1965). Ad un secondo gruppo sono stati ricondotti due ritratti della Vergine, una Trinità ed un sant’Antonio Abate; si tratta di pitture votive del secolo XV disordinatamente sostituite alle principali. A questi gruppi dominanti si aggiungono pitture votive, in parte perdute, eseguite tra i secoli XVIII e XIX.
Come riferito la principale immagine è quella della Trinità, l’unica superstite per intero, vera e propria calamita che attira le masse di devoti; racchiusa in una lunetta, la triade divina si staglia su un fondo grigio-azzurro ed è rappresentata nell’iconografia di tre persone identiche sul tipo del Cristo che indossano una tunica e un pallio bicolore, sono assise su un unico trono e benedicono alla greca con la mano destra mentre con la sinistra sostengono un libro aperto. Sotto di loro è scritto in lettere capitali l’atto di fede verso questo mistero: IN TRIBVS HIS DOMINVM PERSONIS CREDIMVS.
L’apparente disorganicità dei soggetti potrebbe spiegarsi grazie a un lieve scarto cronologico nell’esecuzione di queste pitture; alla Trinità furono aggiunte le Scene Evangeliche (tema quasi d’obbligo negli edifici di culto) e si occupò lo spazio sottostante con il motivo iconografico dei Mesi molto in voga nella tradizione medievale; una suggestiva lettura che collega queste più antiche immagini della parete occidentale dell’oratorio, è quella che le identifica come strada che l’uomo, protetto dalla divinità (la Trinità), attraverso il lavoro, inteso come riscatto dal peccato (Ciclo dei Mesi), sull’esempio di Cristo (Scene Evangeliche) deve percorrere per attendere alla salvezza dell’anima (cfr. A. M. D’ACHILLE, 1980).