Mons. Alfredo Di Stefano ha celebrato, ieri sera la sua ultima Messa in qualità di parroco della Cattedrale di Sora: è stato un commiato molto sobrio, che don Alfredo ha voluto condividere con tutta la sua comunità. Qui di seguito, il testo integrale della sua omelia e un’articolata galleria fotografica che ripercorre alcuni momenti della serata.
“Sono un camminatore, nessuno mi fermerà per le strade, a cuore aperto, camminerò tra gli uomini ( Tagore).
È quanto stasera vorrei consegnarvi come ricordo per gli anni trascorsi insieme: “ un cammino libero e fatto a piena voce”, il mio con voi, riprendendo le parole del poeta Tagore, che avete trovato sui banchi, come ricordo di questo momento.
In questi anni di intensa vita sacerdotale molte sono le strade che si sono incrociate alla mia. Ho accolto nel cuore molte storie belle, ma anche tante meno serene, segnate dalle rughe del dolore che hanno spento spesso i colori vivaci della vita. Spesso mi sono sentito l’ultima spiaggia, dove hanno approdato tante barchette che avevano smarrito remi e vela e che rischiavano di affondare, chiedendo una piccola scialuppa di salvataggio per riprendere il largo.
A tutti ho cercato di indicare la sicura rotta da seguire. A ciascuno ho regalato una bussola che segnava la direzione da prendere: la Parola di Dio, l’unica parola che si può proporre che porta con sè la luce carica di tanta speranza, la luce attesa da ogni cuore. Mi è capitato anche di sperimentare un senso di profonda tristezza nel costatare che alcuni non hanno lasciato che la luce invadesse la loro vita e la riempisse di significati veri ed eterni.
Ma è bellissimo poter costatare, ora, che comunque sia andato, il Signore ha continuato a scegliere e a seminare a piene mani il seme della Parola e la grazia dei sacramenti. Vi assicuro che tanta è stata l’acqua fresca donata gratuitamente alla nostra sete in questo straordinario cammino di questi anni. “In quel tempo Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea”. E come Gesù attraversa la Galilea, instancabile, per territori imprevedibili, percorrendo vie sabbiose, fermandosi in città a lui spesso sconosciute, così il cristiano è l’uomo che non può stare fermo: anche egli indossa le scarpe del camminatore, porta sulle spalle lo zaino e si nutre del pane.
Il cammino che Gesù compie, però non lo fa, né come vagabondo, nè come turista, ma come pellegrino verso Gerusalemme, come pellegrino verso il Padre. Da qui anche le nostre mete, il nostro pellegrinare, spesso sconosciuto a chi ci è vicino, ma sempre inserito in un grande progetto più grande di noi, quello di Dio. Così anche il mio andare, è senz’altro nella chiamata di una vocazione che vuole ripercorrere le orme di Gesù, colui che ho seguito anni fa, la cosa più bella che mi è capitata nella mia vita. Lui è stato per me quello che la primavera è per i fiori, quello che il vento è per l’aquilone. È Lui che ha sempre contrastato in me una vita mediocre, è Lui che mi ha spinto sempre a volare in alto, è Lui che ha fatto risplendere, nella mia vita, bellezza e ordine, armonia e pace.
“Insegnava ai suoi discepoli”. E Gesù camminando insegna. Ma ieri, come oggi, nel comunicare il Vangelo, nel trasmettere la Parola, si corre il rischio di non essere compresi, di non capirne il contenuto, di aver timore di chiedere ulteriori spiegazioni e rimanere nel fraintendimento, continuare ad avere gli stessi pensieri, gli stessi progetti, senza cambiare se stessi. E questo capita sia al gruppo dei discepoli di Gesù, così, come nella vita di ogni comunità, dove i più vicini, sembrano sì prestare orecchio, camminare accanto e dietro, ma spesso non comprendono, cioè non prendono con sé seriamente Gesù, non ne abbracciano il contenuto, la scelta e l’esperienza.
E perché? Come dice l’apostolo Giacomo si è forse presi, spesso, da altro: “spirito di contesa, gelosie”, il desiderio di primeggiare e altre dinamiche che tratteggiano un senso ecclesiale non fortemente vivo, sereno, docile e appassionato. Dinanzi a questo non comprendere, Gesù non giudica, ma non si lascia nemmeno condizionare, insiste su due realtà, su due azioni: accogliere e servire.
Accogliere è il verbo più importante dell’esperienza e della vita cristiana e di ogni comunità. Questo è ciò che io ho cercato di vivere e di trasmettere a ciascuno di voi: accogliere Cristo e i fratelli. Accogliere Cristo. Sì, ci siamo avvicinati a Lui, lo abbiamo riconosciuto nella celebrazione eucaristica di tante domeniche, dove attenti e fedeli, siamo stati colpiti dal mistero dei segni liturgici, dai profumi e dalle luci, dal canto e dalla Parola.
Qui abbiamo accolto la sua presenza e come assemblea, più di una volta, il nostro cuore si è emozionato, insieme abbiamo sorriso e pianto, abbiamo gridato e fatto silenzio. Negli itinerari di anni che si sono succeduti, abbiamo vissuto, atteggiamenti pazienti e benevoli, illuminati e consolati dal Signore. E tra incomprensioni e pregiudizi abbiamo camminato sempre con slancio ed entusiasmo e tra insuccessi e gratificazioni abbiamo camminato sempre con umiltà, con l’attitudine del servo, con la volontà dell’uomo di pace. Egli ci ha accompagnati così ritmando il tempo trascorso: i Natali, le Pasqua, le feste, la solennità dell’Assunta, che intreccio di ricordi!
Lui abbiamo cantato con i piccoli e i grandi, con il decoro e la bellezza di gesti, momenti e luoghi, che ci hanno fatto respirare il senso del divino. Lui abbiamo ascoltato nella Parola proclamata, meditata nelle omelie e nella catechesi del Lunedì. Lui, infine, abbiamo incontrato nella ricca e significativa vita sacramentale: 909 battesimi, 980 comunioni, 394 matrimoni, 822 funerali. Volti e nomi, forse alcuni dimenticati, ma presenti nel cuore e nella preghiera della chiesa, come una grande cordata di legami invisibili ed indicibili, intrecci di belle conoscenze e di significative amicizie.
Accogliere i fratelli. Gesù di accoglienza, in questi anni, ci ha parlato moltissimo. Gesù accoglie soprattutto in quanto prende sul serio quelli che incontra, li interpella a fondo e si lascia anche interpellare da loro. Accoglie con la sua mitezza, con l’attenzione, con la tenerezza; ma anche con la bruschezza e imprevedibilità di certi momenti. Così la comunità di quelli che credono in Gesù attraverso i tempi, dovrebbe essere, in primo luogo, una comunità accogliente: attenzione, sollecitudine, tenerezza, capacità di perdonare e risanare, ma anche capacità di sorprendere e provocare, forse anche capacità di collera che non è negativa se vuole esprimere un amore più intenso, una passione per il bene e per le cose belle.
La vocazione della comunità cristiana da questo punto di vista è indiscutibilmente, quella cioè di essere una comunità di amore vero, tale da poter essere quasi sacramento (nel senso classico di “segno efficace”) dell’ amore di Dio per noi, da poter rendere vivente comunicativo e sperimentabile quell’amore. Accogliere semplicemente per essere se stessi. E noi l’abbiamo vissuta l’accoglienza, prima di tutto nella pazienza di dover accettare allontanamenti, senza motivazioni di alcuni; nel fare silenzio dinanzi alla indifferenza e alla critica non costruttiva di altri, nel riconoscere spesso la falsità e le menzogne di certuni.
Abbiamo accolto soprattutto con amore e rispetto i fanciulli che sono cresciuti e le loro famiglie, animando il loro tempo e la loro fede, ospitandone alcuni provenienti dall’ex Iugoslavia; come abbiamo ascoltato i vari problemi, e in particolare quelli della tossicodipendenza, cercando di promuovere sensibilità e non ostilità; abbiamo accolto e promosso il tenore culturale del territorio, animando e rendendo vivibili i vari momenti, lavorando intensamente per il benessere di tutti.
Certo di fronte al messaggio di Gesù ho sentito spesso la mia inadeguata risposta e dinanzi a mille richieste – specialmente quelle del lavoro- la mia impotenza. “Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”( Lc 17,19 ): così gli anni sono passati velocemente nel servizio di questa comunità.
Come abbiamo servito? Gesù offre nel Vangelo una stupenda lezione sullo stile del profeta. Un servizio senza calcoli, doppiezze di interessi, un servizio con lo spirito dell’agnello. Di fronte all’orgoglio, all’arroganza, alla prevaricazione, all’idolatria di se stessi, Gesù oppone la via di Gerusalemme, la posizione dell’ultimo, la scelta dell’umanità e del servizio dei fratelli.
Il servizio, il mio non è mai stato un sacrificio, ma un automatismo del cuore, perché l’amore porta a servire, come fanno le nostre mamme, senza rivendicazioni. In questi anni mi sono sforzato di servire per essere un pezzo di Dio in mezzo voi e ce l’ho messa tutta con lo stesso impegno che ha un padre per la sua famiglia.“Chi non vive per servire, non serve per vivere”, così papa Francesco, oggi a L’Avana e questo è anche il mio messaggio. “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me”.
Concludo con l’immagine dei piccoli, perché tutto il Vangelo è riassunto in un abbraccio di un bimbo. Cosa chiedono i bambini? I bambini chiedono solo due cose: una vera presenza e vedere il papà e la mamma innamorati. Il mio augurio è di tornare a guardare come i bambini, tornare ad ascoltare come gli innamorati, imparare dai bambini e dagli innamorati la presenza vera dentro la vita e dentro la comunità parrocchiale, ad esserci come siamo!
Buon cammino e grazie a ciascuno e a tutti di vero cuore!”.