di Stefano di Palma
E’ lo stesso Edvard Munch (1863-1944) a raccontare l’ispirazione da cui trae origine il suo celebre Urlo, opera del 1893. L’artista descrive questo momento così: “Una sera passeggiavo per un sentiero, da una parte stava la città e sotto di me il fiordo. Ero stanco e malato. Mi fermai a guardare al di là del fiordo – il sole stava tramontando – le nuvole erano tinte di rosso sangue. Sentii un urlo attraversare la natura: mi sembrò quasi di udirlo. Dipinsi questo quadro, dipinsi le nuvole come sangue vero. I colori stavano urlando”.
Il forte e inedito impatto espressivo di questo dipinto indica tutto il senso di angoscia che pervade la letteratura, la pittura e il teatro del Nord Europa al tramonto del secolo XIX; si tratta di un malessere cosmico che collima con l’esperienza emotiva e biografica del pittore norvegese.
Munch rappresenta in primo piano una creatura con il volto da teschio che grida e corre verso di noi. Né uomo né donna, quella creatura è semplicemente l’umano ridotto alla sua essenza schiacciato da un destino di morte già inscritto dalla nascita e oppresso da una realtà insostenibile (cfr. E. DI STEFANO, 1994). In fondo al sentiero, delineato da un parapetto in accentuata prospettiva, si scorgono due personaggi che si allontanano; in opposizione alle diagonali prospettiche della strada, il cielo e il paesaggio sono attraversati da linee ondulate dai colori accesi che rendono visivamente l’idea di una tensione che attraversa tutta la scena, accomunando, come è stato evidenziato, in un unico destino l’uomo e la natura, secondo il pensiero del filosofo Kierkegaard (cfr. R. SCRIMIERI, a cura di, 2002).
Sono proprio quelle linee ondulate, assieme alla forza del colore, a rendere visivamente l’idea di quell’urlo interiore, che fuoriuscendo dalla bocca del protagonista si propaga in una distinguibile eco in tutto il paesaggio; non esiste posto per la speranza e anche noi, sollecitati dal pittore con un violento urto retinico, sentiamo nel profondo quel grido che ci attraversa e frantuma le nostre effimere certezze. Del resto il senso del tragico, dell’angoscia e della morte appartiene a tutta l’umanità e non conosce limiti temporali ma il pittore Munch, sulla scorta di una sensibilità fuori dall’ordinario e di una mente indubbiamente patologica, è riuscito, come pochi, a rendere visibili queste striscianti sofferenze spesso ignorate dal genere umano anche per semplici ragioni di sopravvivenza.
Il codice figurativo e cromatico configurato dal pittore racchiude alcune delle esperienze artistiche di fine Ottocento (come i colori accesi derivati dagli Impressionisti e da Gauguin e le deformazioni prodotte da Van Gogh) ma la totale disinvoltura nell’uso delle tinte e l’irrequieta attenzione alla sofferenza dell’uomo aprono le porte alla riflessione della pittura prodotta in seno all’Espressionismo. Gli stessi accenti linguistici di Urlo si ritrovano in altri capolavori dell’artista come ad esempio Disperazione del 1892 e Angoscia del 1894 dove l’impostazione comune si evince ad esempio nel taglio prospettico, nell’uso delle linee ondulate, dei colori accesi e delle fisionomie accennate o spiritate.
“Poteva essere dipinto solo da un pazzo” scrive a matita Munch tra le nuvole rosse in una delle versioni del dipinto in esame: probabilmente si tratta del suo più tragico autoritratto.
Stefano Di Palma