Racconto a puntate di Anna Maria Scampone
Elisa si svegliò stizzita.
Essere svegliata dalle grida dei bambini dell’appartamento di fronte al suo era ormai una consuetudine talmente consolidata da avere associato il fattaccio – così lo definiva tra sé – al risveglio. Ci doveva fare i conti ogni santa mattina, così come faceva con l’alito pesante, le rughette di espressione intorno agli occhi, i capelli scarmigliati.
Ma quel giorno, oh quel giorno, gli adorabili frugoletti avevano passato il segno. Sembravano essersi svegliati con il preciso compito di rompere le scatole a tutto il vicinato. I decibel di grida e pianti avevano superato la soglia dei suoi sogni, interrompendoli sul più bello. Questo aveva reso irritabile Elisa. In fondo, non le capitava mai di sognare di essere abbracciata da un giovanotto così ben fornito e così ben disposto nei suoi confronti. Anche nei sogni, faceva il terzo incomodo e guardava il bellone di turno darsi da fare con amiche e/o cugine e/o conoscenti. Tutte, nei suoi sogni, vivevano una vita lussuriosa e godereccia. Tutte, tranne lei, che si limitava a fare da invidiosa spettatrice.
Guardò la sveglia. Erano appena le sette di una domenica mattina. Nooo! Una povera crista aveva il santo diritto di crogiolarsi a letto nei giorni festivi, girandosi e rigirandosi nel lettone. Era un vero e proprio delitto essere costrette ad alzarsi per sfuggire alle urla disperate di uno dei due mocciosetti. Diamine, ma la madre non poteva zittirli in qualche modo? Che so… ingozzarli di dolci, metterli davanti alla televisione, riempirli di ciabattate sul fondoschiena per esempio. Tutto, pur di zittirli!
Cancellò mentalmente l’ultima soluzione in quanto politically incorrect, almeno secondo i contemporanei canoni educativi. Eppure, eppure… ricordava ancora le rincorse della mamma che la inseguiva brandendo la ciabatta di plastica dura e il bruciore sulle natiche quando la raggiungeva e la puniva con quel sistema primitivo e umiliante. Per giorni ne portava i segni sia addosso che nell’andatura cauta e lenta. Però le passava ogni voglia di disobbedire. Lei, infine, era venuta su bene, come le ripetevano tutti.
Elisa avrebbe voluto sfuggire a quel putiferio, ma faceva troppo caldo per infilare la testa sotto il cuscino. Estate di fuoco, temperature anomale, tassi di umidità oltre la norma. Non si parlava d’altro nei telegiornali. Si sudava anche solo a pensare di fare un qualsiasi movimento, figurarsi fare un tentativo per sfuggire al pianto dirotto di un ragazzino alle sette e cinque del mattino. Sbuffando decise di alzarsi. Era un vero e proprio delitto doverlo fare, ma forse la giornata sarebbe migliorata dopo una abbondante tazza di caffè.
Quando l’aroma si diffuse nella cucina si sentì riconciliata con il mondo. Il caffè del mattino era un vero e proprio rito. Andava gustato caldo, con calma e, possibilmente, in compagnia. Questo le diceva sempre la nonna, ghignando allusivamente. Sospirò. Era una vita che non onorava questa saggia raccomandazione. Versò lo zucchero nella tazza. Anche questa semplice operazione andava fatta con criterio, seguendo una procedura precisa. Stese un velo di zucchero sulla superficie del caffè, laddove si era formata una sorta di cremina, prima al centro e poi via via verso la periferia della tazza. Guardò il risultato. Più a lungo la cremina tratteneva lo zucchero, tanto più il caffè era buono!
Uno strillo più acuto degli altri interruppe quel momento magico. Elisa sussultò. Eh no, questa volta non avrebbe soprasseduto. Furente, tamponò la macchia di caffè che si allargava sulla tovaglietta bianca. Maledizione, doveva bagnarla immediatamente con acqua fredda, altrimenti sarebbe diventata indelebile. Il trambusto nella casa accanto divenne insopportabile. Richiedeva il suo intervento all’istante. Gliene avrebbe cantate quattro alla signora. Se non sapeva tenere a bada i suoi bambini avrebbe provveduto lei a darle qualche salutare consiglio. Rivalutò il vecchio sistema della mamma. Gliene avrebbe parlato. Anzi, glielo avrebbe raccomandato. A mali estremi, estremi rimedi!
La porta dell’appartamento era insolitamente aperta, spalancata su un atrio ingombro di giocattoli. Bussò con decisione, armata di una esasperata indignazione. Era ora di affrontare la questione, una buona volta per tutte! Non avendo risposta alcuna, spinse in avanti l’uscio e si sporse il tanto per scorgere le piastrelle colorate della cucina. Le grida arrivavano da lì.
“Signora, le serve una mano?” chiese titubante.
Non ricevendo risposta, avanzò nell’atrio con cautela, quasi in punta di piedi. Cominciava a pentirsi della decisione presa. E se la vicina avesse preso il suo gesto come un’intrusione non gradita nella sua vita privata?
Fece qualche passo ancora ed entrò in cucina. Non era preparata a quello che le si parò davanti!
(fine prima parte)