di Anna Maria Scampone.
Lo straniero è come un fratello che non hai mai incontrato.
PROVERBIO AFRICANO
Quando il mare ne restituì il corpo, di Bakary era rimasto ben poco. Fu impossibile identificarlo e, come era stato per tanti prima di lui, gli fu riservato solo un cumulo di terra in un piccolo cimitero e un cartellino con un numero, al posto del nome.
Era partito qualche tempo prima dal porto di Zuwara. Il peschereccio sul quale si era imbarcato era un vecchio legno che avrebbe avuto bisogno di una sistemata, ma stava a galla e questo bastava. Bakary soffriva il mal di mare. Lo scoprì non appena mise piede sul barcone. Al leggero rollio del legno sotto ai suoi piedi, lo stomaco cominciò a contrarsi e contorcersi. Non ebbe il tempo di lamentarsi, costretto come era nella fila. C’erano donne e bambini, perlopiù uomini che si affollavano per conquistare i posti migliori. Solo che non ce n’erano: si stava addossati, l’uno accanto all’altro, stretti ai pochi averi sottratti alle continue ruberie nei campo profughi.
Il giovane ebbe fortuna. Trovò un posto a prua, a ridosso dell’attrezzatura per la fonda e l’ormeggio. Accanto a lui, una famiglia. Lei, appesantita dalla gravidanza, allattava un frugoletto dalla faccetta furba; lui tranquillizzava una bambina che piangeva disperata. Entrambi i bambini erano vestiti di rosso. Bakary distolse lo sguardo, turbato. Si accucciò in un angolo, avvolto nel burnus di lana, il mantello con il cappuccio che le mani amorevoli delle donne della sua famiglia avevano cucito per lui. Aveva paura e si sentiva maledettamente male, ma il tocco della lana sulla pelle era confortevole come l’abbraccio della sua mama. Pianse in silenzio mentre la barca si allontanava dalla sua terra, poi si assopì esausto.
Quando arrivarono al largo, fu sopraffatto dalla vastità del mare. Lo inquietavano la profondità dei fondali, la linea dell’orizzonte che sembrava allungarsi all’infinito, lo snodarsi lento e ipnotico delle onde. Non era così che aveva immaginato il viaggio.
A bordo, dopo il vociare della partenza, le voci si erano attutite ed erano diventati sussurri, riservati soprattutto alla preghiera. C’era tempo per pensare, forse troppo. L’inquietudine traspariva dai volti dei suoi compagni di viaggi: il cibo e l’acqua erano scarsi e la convivenza forzata faceva saltare frequentemente i nervi. Bakary cercava di rendersi il più possibile invisibile e distoglieva lo sguardo in fretta quando qualcuno voleva attaccare briga.
Di giorno fissava il mare; di notte ne ascoltava la voce e si acquietava. Quella sera, guardò il cielo illuminarsi e proiettarsi sulla superficie nero petrolio dell’acqua. Riconobbe l’Orsa Maggiore e Cassiopea e con quella visione negli occhi si addormentò. Fu risvegliato dalle voci allarmate degli scafisti.
«Siamo troppo pesanti» gridava uno di loro.
Bakary gettò lo sguardo al di sopra della fiancata della barca e si ributtò a sedere atterrito. Potenti e minacciose onde si abbatterono sulle murate come grossi magli nella fucina. Il peschereccio cigolò sinistramente sotto quei colpi ripetuti, ma riuscì a resistere.
«Buttate i bagagli in mare» ordinò il capitano. Qualcuno obbedì, altri cercarono di opporsi, ma dovettero arrendersi quando capirono che il peso li avrebbe trascinati tra i gorghi.
Terrificanti muri d’acqua sovrastarono la barca e si abbatterono sui migranti, frustando senza pietà le schiene ricurve, le braccia e le gambe serrate nell’abbraccio, i visi distorti dal terrore. Il furore del mare era così devastante da smorzare le voci, attutire le grida, disperdere i suoni. A Bakary sembrò un inferno popolato da spettri senza voce.
«Stiamo imbarcando acqua» avvisò uno dei marinai.
Il ragazzo guardò i suoi compagni di viaggio. Si era affezionato a molti di loro: avevano fraternizzato, dividendo l’acqua e il poco cibo che c’era, scambiandosi confidenze e cantando insieme quando la nostalgia diventava un macigno insopportabile dell’anima.
Un’ondata più alta trascinò via un paio di persone, poi altre ancora. Il mare le inghiottiva con voracità famelica, stritolandole in un abbraccio mortale.
«Siamo ancora troppo carichi!» urlò uno scafista.
La nave era pericolosamente inclinata e, nonostante gli sforzi di tutti, era impossibile liberare la sentina dall’acqua. Quando il motore si fermò, il capitano urlò: «Alleggerite la barca.»
La sua voce risuonò come un messaggio di morte. Alcuni uomini furono buttati in acqua, come un’inutile zavorra. Tentarono di divincolarsi, ma furono immobilizzati dagli stessi compagni e sacrificati per la sopravvivenza degli altri. Ma non bastò. Il mare esigeva un tributo più elevato e, dopo gli anziani, fu la volta dei ragazzi. Bakary fu uno degli ultimi.
Scalciò e gridò, pianse e implorò, aggrappandosi ora all’uno, ora all’altro. Le mani lo trattenevano per un istante, poi lo lasciavano scivolare via. Due braccia forzute lo buttarono fuori bordo. L’impatto con l’acqua fu come un pugno nello sterno. Restò senza respiro per un lungo istante, ma decise che avrebbe combattuto fino all’ultimo la sua personale battaglia contro il mare. Questi lo schiaffeggiava, lo tirava giù e lo sospingeva di nuovo in superficie, come un tappo di sughero. Giocò con la vita di Bakary per dieci lunghi e beffardi minuti, durante i quali il ragazzo lottò con tutte le sue forze. Fu attirato in un gorgo e sparì sotto il pelo dell’acqua.
Bakary non sapeva quanto potesse essere dolorosa la morte. Trattenne il fiato finché ne fu in grado, poi cominciò ad annaspare e ingoiare acqua. Preso dal panico, tentò la risalita verso la superficie, ma le sue gambe non riuscirono a dargli la spinta giusta. Avvertì un forte bruciore al petto, come un fuoco che gli inondò i polmoni e, infine, un ultimo spasmo prima di lasciarsi andare.
Negli ultimi istanti, tornò a casa, salutò il suo baba e abbracciò la sua mama. Non avrebbero mai saputo.