IL RACCONTO DELLA DOMENICA

LAVINIA

di Anna Maria Scampone.

Mi chiamo Lavinia e ho quindici anni. Mi piace il gelato, adoro i peluche, guardo i Simpson e custodisco un orribile segreto. È difficile parlarne, ma non posso più tacere.
Sono stata stuprata. Sì, avete capito bene. Stu-pra-ta. Non l’avevo detto a nessuno finora. Mi vergognavo troppo. Ma ora non contengo più la rabbia, il dolore e la frustrazione. E lo voglio dire, anche se il solo suono di questa parola mi fa rabbrividire. Ho subito uno stupro o, come hanno scritto sul verbale in caserma, sono stata vittima di un abuso sessuale. Non cambia la sostanza delle cose. È un’esperienza terribile: sa di violenza, disprezzo, sperma e morte dell’anima.
Morire dentro. Non ho saputo cosa volesse dire finché l’attrattiva di un gelato fragole e limone non è stata più tale. Ora non esco più di casa, non rispondo al cellulare, non scrivo sui social e mi rifiuto di andare a scuola. Ho persino buttato i miei peluche. Non sono più una bambina ormai. Da quella sera, non so chi sono. Non so cosa sono. Non so e basta.
Ero uscita con le mie amiche Selene e Carola. In attesa della discoteca, abbiamo mangiato una pizza. Gigi, il pizzaiolo si è superato. Sulla mia margherita ha messo una pioggia di mozzarella filante. Era ottima. Ho bevuto una birretta che con la pizza è la morte sua. Una zero cinque, per non sfigurare.
La discoteca era affollata come al solito. La fila per entrare era piuttosto lunga, così ho tirato fuori le sigarette. Non che mi piaccia fumare, ma le mie amiche lo fanno e così lo faccio anche io. Si sono avvicinati alcuni ragazzi. Ci hanno proposto di saltare la fila ed entrare con loro che avevano l’invito. Non ce lo siamo fatto ripetere due volte. Certe fortune bisogna coglierle al volo. Abbiamo ballato e bevuto; bevuto e ballato. Lo so, non avrei dovuto farlo, ma i nostri bicchieri erano sempre pieni e l’alcool andava giù senza problemi. Ero un po’ su di giri, ma mi sentivo padrona della situazione.
Uno dei ragazzi mi ha fissato per l’intera serata. Io ero lusingata dalle sue continue attenzioni, attratta dai suoi occhi azzurri, dai capelli chiari, dal sorriso rassicurante. Quando mi ha chiesto di andare in un posto più tranquillo, l’ho seguito senza esitare. Il privé era piccolo, ma accogliente: luci soffuse, divanetti comodi, un tavolino basso. La musica arrivava attutita e ho pensato che avremmo potuto parlare e conoscerci meglio. Non me ne ha dato il tempo. Mi ha baciata sulla bocca, in un modo che mi ha fatto gemere. Ho avvertito una vertigine, come una specie di scossa, attraversarmi tutta. Non avevo mai provato nulla del genere. Ho ricambiato il suo bacio.
«Non avrebbe dovuto incoraggiarlo» mi hanno detto in caserma. «Ricambiare il bacio è stato un errore. Gli ha dato un’autorizzazione a procedere.» Giuro, mi hanno detto proprio così. Autorizzazione a procedere. Come se fossi io la colpevole, come se l’avessi voluto io. Mi sono sentita ancora più sporca e disperata.
Io non volevo che mi toccasse. Ricordo le sue mani. Invadenti, insistenti, fastidiose. Avrebbe dovuto sfiorarmi con dolci carezze, invece mi strizzava le tette, come fossi una mucca da latte. Le stringeva con bramosia e mi faceva male.
«Ma lei, glielo ha detto che non voleva essere toccata?»
Questa domanda me l’hanno fatta in molti. I miei, per iniziare, il maresciallo e l’assistente sociale, persino lo psicologo che mi segue. Come se io ricordassi i fatti di quella sera con la lucidità necessaria per ricostruirli. L’immagine dei bottoni della camicetta che sono volati via quando mi ha strattonata ce l’ho impressa nella retina e lo strappo degli slip lacerati dalle sue mani impazienti mi perseguita nei sogni, ma non so se ho urlato, pianto o se l’ho implorato di lasciarmi andare. È tutto così confuso, nebuloso… fino al momento in cui mi ha allargato le gambe e mi ha penetrata. Ho provato un forte dolore e poi mi sono sentita di schifo quando mi è venuto dentro. Questo lo ricordo bene. Purtroppo.
La vergogna è arrivata dopo, a freddo. Il bastardo mi ha baciata, ma il suo bacio non aveva il sapore giusto. Mi ha provocato un brivido di disgusto e ho vomitato. Lui mi ha mollato un ceffone e poi mi ha afferrato per i capelli.
«Piccola troietta» mi ha detto. «Non ti ho soddisfatta? Allora, adesso ti mando il mio amico. Vediamo se lui sa fare di meglio.»
L’incubo è ricominciato, solo che aveva un altro volto. E poi un altro e un altro ancora. Non so dire quanti siano stati, né che faccia avessero. Ricordo solo il loro soffiare e mugghiare. Tori da monta infoiati: reclamavano la loro libbra di carne. Alla loro furia ho contrapposto il mio disprezzo. Non ho versato una lacrima, mentre facevano scempio del mio corpo. Era come se un’altra me, guardasse con distacco, quello che stava accadendo.
«Perché li ha lasciati fare?» mi hanno chiesto.
Non potevo fare altro. Non avevo alternative. Nessuno è venuto ad aiutarmi, nemmeno le mie amiche. Allora ho deciso che avrei dato loro un corpo inerme, una versione in carne e ossa della bambola con cui si trastullavano in camera. Ad un certo punto, devo essere svenuta perché tutto è diventato sfocato. Quando ho ripreso conoscenza ero in ospedale. Ho faticato a capire perché avevo tutti quei tubicini addosso, poi ho sentito i medici parlare con i miei.
«Ha profonde lacerazioni e un’emorragia vaginale, ma questo potremo risolverlo. Le ferite più profonde saranno quelle dell’anima. Dovrete starle accanto con il vostro affetto e vi consiglio di contattare uno specialista che l’aiuti.»
Ma nulla e nessuno potranno mai aiutarmi. Non è servita la denuncia, non mi hanno aiutato le sedute dallo psicologo, non mi basta l’amore dei miei. Quella notte, ho pensato di essere riuscita a rendermi inaccessibile, invece quelle belve mi hanno fottuto l’anima. E questo non gliel’ho perdonato.
Carico la pistola e prendo la mira.
«Bang» sussurro mentre fisso la foto dei miei aggressori.