di Stefano Di Palma
Celebriamo l’arrivo della stagione primaverile con un misterioso dipinto, il cui titolo deriva da una lettura data quasi cento anni dopo la sua esecuzione; è infatti Giorgio Vasari che, vedendo questa tavola, vi riconobbe “Venere, che le Grazie la fioriscono, dinotando la Primavera” coniando, con questa descrizione, il nome con cui oggi conosciamo quest’opera, ovvero la Primavera.
L’ambientazione della scena è costituita essenzialmente da un boschetto sacro, ricco di piante e di fiori; si tratta di un luogo chiuso e riservato dotato di poche aperture di luce che accoglie, se pur con freddezza, i protagonisti che lo abitano. La lettura dell’opera inizia da destra dove Zefiro, personaggio impetuoso raffigurato con colori plumbei e le guance gonfie (si tratta del vento), insegue la ninfa Clori, trasformandola in Flora, l’immagine della fecondità e del risveglio della Primavera; quest’ultima è raffigurata come una bella ed elegante donna bionda che avanza nella scena, con passo sicuro e leggero, distribuendo dei fiori sulla terra. Al centro si trova Venere dea che incoraggia l’amore, come ci ricorda il soprastante Cupido che tende una freccia verso le Grazie. Quest’ultime sono ritratte mentre compongono un cerchio a passo di danza. Infine a sinistra si trova Mercurio vestito di una tunica e munito di calzari alati e del caduceo con il quale disperde le nuvole.
Sandro Botticelli (1445-1510) dipinge questo capolavoro nel 1478 per l’amico e protettore Lorenzo di Piero de’ Medici che lo destina alla sua Villa di Castello; in questa dimora per un periodo la tavola fu posta sopra lo schienale di un letto mentre odiernamente può essere apprezzata presso il Museo degli Uffizi di Firenze.
In mancanza di un programma iconografico che spieghi l’esatto significato di questa allegoria, si sono espresse varie interpretazioni critiche che prendono vita a partire dal tema rappresentato. Tra queste, spicca quella che privilegia la manifestazione in quest’opera del rinnovarsi della natura; il tema è aderente al clima culturale che si respirava nella Firenze della seconda metà del secolo XV messo in luce dalla cerchia neoplatonica di Pico della Mirandola, Marsilio Ficino e Lorenzo il Magnifico.
Particolari riferimenti ispirativi sono stati rintracciati nella mitologia classica e ancor di più in composizioni del tempo come le Stanze per la Giostra, un poemetto lasciato incompiuto da Agnolo Poliziano che vi lavorò tra il 1475 ed il 1478; le Stanze si ispirano a un torneo svoltosi a Firenze e vinto dal fratello del Magnifico, Giuliano de’Medici, che aveva gareggiato con i colori di Simonetta Cattaneo. Si tratta di un componimento redatto in veste allegorico-mitologica che riprende il tema cortese del vassallaggio d’amore.
A questo tema, di chiara ispirazione tardo gotica, ben si presta il linguaggio artistico di Botticelli che fu, in varie fasi della sua carriera, un pittore meditativo e, per alcuni stilemi adottati, apparentemente fuori dal suo tempo. In questo dipinto non si rintracciano infatti dei contatti con la cultura prospettico-spaziale avviata da decenni nella stessa Firenze, ma l’artista raggiunge altissimi esiti percorrendo altre strade.
L’opera è pervasa da una grazia ricercata (molto studiata è la mimica dei gesti) e con la sublimazione delle forme raggiunta, il pittore le conferisce, percorrendo le strade dell’armonia e dell’equilibrio, un valore di alta poesia.
Mediante il disegno, utilizzato come uno strumento puro, il Botticelli crea un ritmo lineare che, unito alla raffinatezza delle pose, raggiunge risultati che avvicinano questo capolavoro a sensazioni melodiche; si tratta di stimoli interni, più profondi, che affondano le radici nell’introspezione psicologica dell’autore e che si perpetuano, anche tramite una leggera sensazione, in ognuno di noi quando osserviamo questo dipinto.