IL RACCONTO DELLA DOMENICA

LA PICCOLINA DI PAPA’

di Anna Maria Scampone

Riempiono metà piazza. Rosse, di tante differenti tonalità. Cremisi, cardinale, scarlatto, ciliegia, bordeaux, corallo. Con i tacchi e raso terra, zatteroni e ballerine, sandali e stivaletti, scarponcini e chanel. Ci sono persino delle scarpe da tennis e delle ciabatte da camera. Saranno una cinquantina, ognuna con un cartoncino bianco su cui è impresso il nome di una donna.

C’è anche il mio. È infilato di traverso in un paio di decolletè di una calda tonalità carminio, lucide e con un tacco dodici da capogiro. Le chiamano open toes. Punta tagliata e chiuse dietro. Scarpe che non avrei mai osato mettere durante la mia vita terrena.

La mia storia è come quella di molte altre donne. Nulla di speciale, se si esclude il fatto che sono morta. Sono una vittima, una delle tante. Il mostro ce l’avevo in casa e lo chiamavo papà. Per raccontarvi le mie vicende devo tornare indietro nel tempo, quando ero ancora una bambina e non capivo cosa succedeva intorno a me.

Sono in giardino, le mani sulle orecchie. Mi sono rifugiata là per non sentire le urla dei miei. Mamma e papà litigano spesso. A dire il vero, è papà che urla, mamma sta zitta, subisce e piange in silenzio. Poi mi rassicura cercando di frenare il tremito delle mani. Non è niente, dice, non è niente! Papà è nervoso!

Un altro ricordo, doloroso e indelebile come lo sono gli schiaffi, i calci, i pugni. Lividi del corpo e dell’anima. Sono in corridoio e guardo, non vista, nella camera dei miei. Intravedo mamma riflessa nello specchio. Avanzo esitante nella stanza e le accarezzo i capelli. Il suo sguardo spento mi sfiora appena. È come se non vedesse il mio sgomento riflesso accanto al suo viso tumefatto. Mamma, sussurro, mamma… lei mi zittisce, l’indice sulla bocca a chiedere la tregua di un silenzio.

Non c’è tregua invece per me. Il passato mi perseguita. Dal buio emerge la voce di mio padre, il suo odore di maschio, la ruvidezza delle carezze. La piccolina di papà, mi dice attirandomi a sé. Il suo alito puzza di d’alcool, ma non è di questo che ho paura. Ho terrore della sua collera. Troppe volte l’ho vista abbattersi su mia madre e su di me. Trattengo il respiro, lo assecondo, non reagisco nemmeno quando la sua mano scivola sulla mia schiena e si spinge audacemente sempre più giù.

Rivivo la mia vita come fosse riflessa in uno specchio rotto. Volevo essere uguale alle altre. Spensierata, serena, allegra. Ero, al contrario, schiva e taciturna, prigioniera dei miei segreti. Invidiavo le mie coetanee, le loro vite perfette, i vestiti all’ultima moda, la tranquillità della loro esistenza. Mi infagottavo in maglioni informi, nascondendo i lividi sotto strati di fondotinta. Se solo sospettassero, pensavo disperata, oddio, no… non potrei sopportare i loro sguardi di commiserazione.

Quando è che ho detto basta? Il ricordo si perde e si confonde, insieme alle urla di ribellione di un’altra me, una più forte e coraggiosa di quanto lo sia mai stata io. L’ho ascoltata gridare e affermare i suoi no. Perché non taci, l’ho supplicata, così lo fai arrabbiare di più. Ho cercato, con lo sguardo, il sostegno di mia madre, ma lei è ormai solo un guscio vuoto, un pallido fantasma che si aggira nella nostra casa sussultando a ogni rumore.

Mio padre mi ha picchiata. Questa volta ci è andato giù duro, affievolendo con la forza la mia determinazione.  Ho sentito il suo furore abbattersi su di me, colpire ovunque, non risparmiare nessuna parte del mio corpo. Non lo hanno fermato le mie grida.

Non lo hanno fermato le mie suppliche.

Ha continuato a darmele. Schiaffi, pugni, calci… senza tregua e senza pietà. Poi…

Nel sogno c’è mio padre che mi guarda preoccupato. Mi scuote e mi chiama, ma non riesco a svegliarmi. Lo vedo tra le palpebre socchiuse. Ha il viso contratto in una smorfia grottesca. Dietro di lui, sulla porta, mia madre più pallida del solito, quasi eterea. Si torce le mani, mugolando piano qualcosa di indecifrabile. Tendo l’orecchio. Cosa le hai fatto? mi pare che dica, cosa hai fatto… Ora è accanto a lui, il viso rigato di lacrime. Sento le sue mani su di me. Amorevoli, premurose, calde. Scosta una ciocca di capelli dal mio viso e mi culla come fossi una bambina.

Me ne vado così, stretta tra le sue braccia, confortata dalla sua voce. In lontananza, sempre più indistinta, la figura di mio padre.