di Stefano Di Palma
Continuamente invocata da Papa Francesco contro la crudeltà e la freddezza che spesso indurisce il cuore dell’uomo, la misericordia implica la compassione, la pietà, la carità che è anche grazia, perdono, clemenza: sentimenti e attitudini che precludono la strada all’affermarsi di qualsiasi spietatezza.
Anche se insita nel messaggio evangelico, la misericordia non può essere considerata solo come esclusiva prerogativa del cristianesimo, ma anche come occasione per sviluppare un’attitudine tutta umana di partecipazione al benessere dei nostri simili che può esprimersi lungo le peripezie che ognuno di noi vive durante l’esistenza. La misericordia può divenire così un valore universale, spesso difficile da praticare oppure calpestato nella pratica dagli stessi che se ne fanno teoricamente sostenitori, ma pur sempre una possibile e consapevole manifestazione degli aspetti migliori dell’anima e dell’intelligenza dell’uomo. Quanto questo valore possa accomunare il mondo religioso con quello laico è testimoniato da un dipinto eseguito da Michelangelo Merisi noto come il Caravaggio (1571-1610).
La tela intitolata Le Sette Opere è commissionata a Caravaggio dai Governatori del Pio Monte della Misericordia di Napoli per l’altare maggiore della confraternita situato nella sede completata nel 1606 presso il duomo. L’opera frutta all’artista il cospicuo compenso di 470 ducati.
Nel dipinto si scorgono in alto la Madonna con il Bambino trasportati e frenati da spericolati angeli acrobati mentre in basso si vedono gruppi di animate figure che, tramite la messa in opera di fonti luminose plurime, fuoriescono dal buio (cfr. R. GIORGI, 1998).
La scena si svolge in un vicolo napoletano, ossia lo stesso luogo dove si verificherà successivamente l’aggressione subita dall’artista il 20 ottobre del 1609; questi doveva essere quindi un frequentatore abituale di quel posto e conoscere profondamente il piccolo mondo umano che lo abitava; la trasformazione del degrado in pietà e, quindi, in emblema della Fede, non poteva conoscere ambientazione migliore (cfr. M. MARINI 2014).
Ritenuta per diverso tempo una sorta di bizzarria del pittore, nelle Sette Opere si coglie in realtà un lineare accordo con il Catechismo redatto nel 1597 dal cardinale Roberto Bellarmino e l’accordo con l’essenza del messaggio evangelico riproposto in un modo accessibile a tutti visto l’uso di immagini emblematiche tratte dalla Bibbia o dai classici. Pertanto ritroviamo sulla destra: “seppellire i morti” con il trasporto di un cadavere di cui si scorgono solo i piedi; “visitare i carcerati” e “dar da mangiare agli affamati” opere concentrate dal pittore nell’episodio antico, tratto da Valerio Massimo, del vecchio Cimone affamato e in carcere che viene allattato amorevolmente dalla figlia Pero. Sulla sinistra: “vestire gli ignudi” con san Martino che dona al povero una parte del proprio mantello; “curare gli infermi” si collega ancora a san Martino che curò un giovane storpio; “dar da bere agli assetati” con Sansone che nel deserto beve da una mascella d’asino l’acqua che il Signore ha fatto prodigiosamente sgorgare; “ospitare i pellegrini” cui allude la figura d’uomo che indica un alloggio al viandante ritratto nelle vesti di san Giacomo di Compostela (cfr. M. CALVESI, 1986).
Come osserva acutamente L. Venturi (1951; 1963): “Le Sette Opere dettero modo al Caravaggio di raggruppare tutte le disgrazie dell’umanità dalla prigione alla morte e di far sentire tra le grandi ali di angelo la misericordia divina con un gruppo di Madonna e Bambino ch’è fra i momenti più gentili del suo animo”.
Di carattere violento e geniale artista, il costante impegno di Caravaggio nel rendere la realtà (in linea con la sua formazione lombarda) coincide con il suo bisogno di giungere all’essenza delle cose, nel dipingerle dal vero senza selezionare quelle perfette, ma scegliendo le più usuali e dunque vere. Ma più ancora di quella delle cose, Caravaggio, indaga l’anima dell’uomo e la sua psicologia, dove risiedono le componenti migliori e peggiori di ogni individuo.