di Giuseppe Filippi
Dal momento dell’istituzione dell’Europa molto è stato fatto.
E’ stata rafforzata la coesione tra gli stati membri. Sono stati rafforzati gli organismi comunitari e l’armonizzazione del mercato comune, ma molto resta ancora da fare sul piano politico.
Le strutture europee, tuttavia, nel loro insieme, sono ancora troppo fragili e necessitano di una rivisitazione dei compiti e dei poteri. Gli stati membri debbono comprendere che cedere parte della loro sovranità non è una diminutio ma un rafforzamento delle difese, dell’Unione e dei singoli stati.
Occorre dunque avviare una nuova fase di rafforzamento politico dell’Unione in tutte le sue articolazioni. Gli ultimi settanta anni ci hanno riservato pace, cooperazione, allargamento dell’Unione ad altri paesi dell’est europeo, rafforzamento dei rapporti con gli altri paesi del versante sud del Mediterraneo. Sono tutti elementi che hanno consentito di allargare la cooperazione economica e politica. Ciò ha reso possibile l’avvio di programmi di sostegno economico ai paesi in via di sviluppo, soprattutto quelli del nord Africa, e l’inizio dell’iter di allargamento dell’Unione ad altri paesi che oggi non ne fanno parte, come ad esempio la Turchia. Un percorso che va avanti da oltre cinquant’anni e che ha consentito di creare un’area economica, quella dell’euro, prima al mondo per scambi commerciali. Un risultato non da poco, soprattutto se raffrontato all’avanzata che c’è stata delle economie cinese e indiana.
Naturalmente la fase dell’integrazione, ha visto paesi che ancora oggi mantengono la propria moneta, pur facendo parte dell’Unione. E’ questo un limite che può essere superato solo se l’Europa, e i suoi leaders politici, riscoprono una forte tensione ideale e politica all’integrazione e all’unità vera degli stati. A tale obiettivo, un contributo essenziale può venire, più di quanto non ha fatto la politica, dalla cultura e dagli scambi che questa può promuovere tra i paesi. Ad esempio, abbiamo un bisogno forte di sviluppare l’uso tra tutti i cittadini di una lingua comune, presupposto indispensabile per far “incontrare e parlare” i popoli tra di essi con immediatezza e semplicità, far accedere i cittadini, le imprese e gli enti alle risorse finanziarie messe a disposizione dall’Unione mediante i Programmi, quasi tutti scritti in lingua inglese e francese. Di questo si parla da troppo tempo, ma troppo poco è stato fatto. Occorre che da subito tutti gli stati “impongano”, per un certo periodo di tempo, “l’uso del bilinguismo”, la lingua propria e l’inglese, in ogni atto o documento che viene prodotto dagli uffici sia pubblici che privati; che nelle scuole, a partire da quelle materne, venga inserito un maggior numero di ore dell’insegnamento della lingua inglese; che la tv pubblica stimoli l’uso dell’inglese o ne programmi dei corsi permanenti. Occorre che tutti i cittadini accedano ai documenti dell’Unione con la stessa dimestichezza con la quale accedono all’informazione nazionale.
Peraltro la conoscenza della lingua inglese, e non solo di quella, è fattore essenziale per un paese come il nostro, frequentato ogni anno da milioni di turisti che giungono da ogni parte del mondo e in particolare dai paesi dell’Unione. Attualmente una maggiore conoscenza del tedesco, del francese e dello spagnolo sarebbe, per gli operatori del turismo in particolare, un forte elemento di vantaggio competitivo. Vorrebbe dire far sentire i turisti a proprio agio, sicuri di poter comunicare e accedere liberamente, nella propria lingua, alle tante meraviglie da vedere, studiare e apprezzare.
Tornando al tema dell’Europa e della crisi che la sta inginocchiando, occorre rafforzare l’azione politica che ha intrapreso Monti. E’ necessario che l’Italia, più di altri, avvii una nuova fase di rilancio dell’Europa, così come ha suggerito anche l’economista americano Galbraith jr. L’Italia può farlo e deve farlo. Troppi sono i segnali pericolosi che i detrattori dell’euro continuano a lanciare, ad esempio contro la permanenza della Grecia o di Cipro nell’area dell’euro. Se ciò accadesse sarebbe la fine di sessant’anni di costruzione europea. Se ciò avvenisse, gli scenari che potrebbero prospettarsi, per l’Europa ma non solo, sarebbero davvero apocalittici: la fine di un precorso storico e politico e l’avvio molto probabile di una recessione senza precedenti, accompagnata da una forte instabilità politica a livello internazionale.
Perché ciò venga evitato, occorre coinvolgere sempre di più i cittadini all’interno delle istituzioni europee, fargli prendere maggiore coscienza del valore supremo della pace duratura che è stata garantita; convincerli che una maggiore partecipazione significa non solo maggiore consapevolezza dei diritti e delle opportunità che l’Europa offre, ma anche una maggiore tutela sul piano civile, sociale ed economico. In un mondo tanto grande, tanti piccoli statarelli nani avrebbero davvero ben poche chance di affermarsi o di tenere testa al confronto ormai globale.