di Stefano DI Palma
Al secolo XIII si ascrivono le due più antiche pitture in cui è presentato il volto dell’Abate. Entrambe le opere sono inserite in cicli decorativi di più vasta portata e provengono da contesti di particolare interesse storico e artistico rilevanti anche sotto l’aspetto del culto e della tradizione.
Il primo esemplare è conservato presso il noto Santuario della Santissima Trinità situato sul versante occidentale del Monte Autore in località Vallepietra. Il ritratto di Domenico si trova nella parete orientale dell’ambiente di fronte al celebre affresco rappresentante la “Trinità” che, insieme alle danneggiate pitture dedicate ai “Mesi”e alle “Scene Evangeliche”, determina la decorazione medievale dell’oratorio.
Nel breve riquadro sono raffigurati due santi con relativo “titulus”. Il primo è un san Giuliano (non è escluso che si tratti del martire venerato a Sora anche se sono state proposte identificazioni alternative); il secondo è san Domenico che prima della pulitura di quest’affresco compiuta nel 1942 si riteneva erroneamente come san Francesco d’Assisi.
Il volto del santo appare di forma allungata, il trattamento dei dettagli fisionomici è affidato a segni rossi e neri, i capelli e la barba sono trattati a fili. Il viso di Domenico fuoriesce dai toni bruni dell’abito nella zona del collo, dove la scollatura procura un’aperta forma a V a cui soggiace qualche piega, per poi rendersi compatto con il cappuccio indossato e terminante in una punta centrale. L’intensità del ritratto è potenziato dall’aureola delineata come un disco pieno di luce frenato da un bordo chiaro.
In passato, nel muro sottostante a questa pittura era scavata una nicchia causata dai pellegrini che portavano via per ricordo frammenti di roccia del luogo sacro e dove i medesimi accendevano numerosi ceri provocando le vistose alterazioni dell’affresco: in esso le fumigazioni prodotte dalle fiamme votive hanno saturato l’intonaco di sostanze grasse.
La presenza di questo ritratto nel santuario è stata giustificata dagli studiosi quale ulteriore conferma del filone critico che inquadra san Domenico quale fondatore del luogo di culto dedicato alla Trinità. Il sostenitore di questa teoria, Filippo Caraffa, ha maturato nel tempo tale attribuzione evidenziando in un suo primo studio su Vallepietra alcune donazioni dei secoli XI-XII, effettuate da privati in favore della chiesa della Santissima Trinità, in cui si enuncia la sua ubicazione nel monte detto “Petra Imperatoris”; successivamente alla identificazione di tale località con il Monte Autore, lo studioso ha associato la fondazione della primitiva cappella al Santo benedettino come sembra confermare un passo della “Vita di Giovanni” in cui si dice che Domenico pervenne al luogo chiamato “Pietra dell’Imperatore dove costruì l’oratorio della Santissima Trinità, che affidò ad un pio monaco”.
Il secondo esemplare è conservato nell’Oratorio di San Tommaso Becket che fa parte degli ambienti situati nel piano inferiore della Cattedrale di Anagni di cui, a causa delle sue pitture, il più celebre è rappresentato dalla Cripta di San Magno.
L’affascinante storia di questo vano (il quale fu mitreo, cimitero e cappella) e la sua ubicazione nel sottosuolo si riflettono purtroppo nel cattivo stato di conservazione delle pitture sofferenti per la densa concentrazione di umidità. Gli affreschi presentano un ricco programma iconografico di cui si ricordano in particolare le “Scene della vita di San Tommaso Becket”, le “Storie Bibliche”, il “Giudizio Finale”.
Nella parete destra dell’oratorio è dipinta la serie dei “Santi Benedettini” identificati dal “titulus” (si tratta dei ritratti singoli dei papi Silvestro e Gregorio, della coppia determinata da san Remigio e da san Leonardo e della triade dell’ultimo scomparto costituita dai santi Benedetto, Mauro e Domenico.
Questi ultimi sono ritratti in abito monastico culminante in un rigido cappuccio a punta che copre la testa. Il volto dell’abate Domenico è redatto dal pittore con esili segni che delineano il suo sguardo penetrante per poi ripetersi, con una costante frequenza scandita da morbidi tratti paralleli, nella corta barba e nei sottili e alti baffi che incorniciano la bocca. Il Taumaturgo sorregge un codice chiuso con la mano sinistra mentre la destra appare aperta.
Il collegamento di queste pitture con la coeva arte romana (o quella rapportabile alla sua influenza) e il particolare contesto storico nel quale si collocano, le qualificano come manifesto di adesione alla Chiesa di Roma fondata da Cristo. Tale concordia si esprime anche attraverso l’esibizione dei “Santi Benedettini” (incluso san Domenico che diviene in tal caso esponente della santità fiorita nel territorio) con una speciale predilezione per il martire Tommaso che aveva da poco sacrificato la vita per Roma e la sua autorità.
Anche se cariche di simili valenze politiche e teologiche, delle pitture non possono essere negate la modestia dello stile, della tecnica e della modalità esecutive; probabilmente la presenza dei “Santi Benedettini” è da leggere quale omaggio al benedettino Pietro di Salerno che fece costruire la Cattedrale di Anagni e voluto dal vescovo Pandolofo ivi raffigurato.