Da sabato 21 maggio al 26 giugno 2022 Franco Bianchi – Poteca espone nello spazio del Centro iniziativce culturali studiounoripartiamodazero di Avezzano (la galleria d’arte è ubicata nel centro della città, in via Castello 7). In occasione della mostra verrà presentato un consistente catalogo monografico dell’artista di circa 200 pagine. Il testo è un saggio specifico che raccoglie un considerevole numero di lavori dell’artista arricchito da numerose note critiche e saggi di esperti e critici d’arte.
Franco Bianchi-Poteca è architetto e docente di Storia dell’Arte. Inizia giovanissimo a dipingere . A partire dagli anni 70/ 80 ha già al suo attivo numerose mostre personali e collettive. Negli ultimi anni ha esposto : /2013-Spazio Comel -Latina/2013-Fondazione Moderni -Roma/2017– “La Dama e Il Libro” Palazzo della Provincia di Frosinone /2018– Art Expo-New York/2018– Art Nordic-Copenaghen/-2018-Brik Lane Gallery-Londra /2018-Biennale del Tirreno – Cava dei Tirreni -Salerno/2018– Salon Internazional d’Art Contemporanin -Cannes/2018-Arte Milano -The Factory -Milano/2018-Arte Ingegno-Arcadia ArtGallery Milano/2020–Ministry of Culture Cultural Centre-Umm AL Quwain / Al Fahidi Cultural Centre-Dubai/2020–“Vieni” Installazione intitolata a M.Mastroianni a cura del Comune di Fontana Liri- Regione Lazio/2022– Salon Internazional d’Art Contemporanin 3F -Parigi. Franco Bianchi-Poteca inoltre vanta molteplici lavori per conto di Enti pubblici, attività nel campo della scenografia, architettura, scritti, lavori di design e opere scultoree in bronzo.
Marcello G. Lucci, nella prefazione del catalogo, scrive: L’attitudine al lavoro creativo di Franco Bianchi viene da lontano e probabilmente ha una matrice genetica, essendo egli figlio d’arte. Suo padre Giovanni era pittore figurativo, autodidatta, autore di quadri densi di vitalissimo cenno cromatico a spontanea propensione post-impressionista; essenziali nella loro stesura gradevolmente stenografica. Pittura schietta, in grado di esprimere una naturale narrazione. Di particolare interesse il ciclo (costituito da sessanta dipinti) dedicato con afflato culturale e sentimentale al capolavoro manzoniano “ I Promessi Sposi”.
Così, Franco si è formato fin da piccolo in un ambiente familiare stimolante, attento ad ogni minimo progresso tecnico e creativo del bambino futuro artista che oggi racconta, con una certa nostalgia: “mio padre – che non buttava via mai nulla – conservava i miei piccoli disegni infantili e questi sono giunti fino a me, a dimostrare la mia originaria, innata, predisposizione all’arte”. Da questo affettuoso ricordo risulta evidente la riconoscenza del figlio nei confronti della figura paterna primo mentore della sua attività di pittore, nonché suo primo maestro. Esiziale, quindi, per l’artista di Fontana Liri l’atmosfera familiare e poi le giovanili frequentazioni del conterraneo pittore Manlio Sarra, eccellente paesaggista, con il quale da ventenne ha condiviso molte proficue escursioni nella campagna laziale per dipingere an plein air. E la “contaminazione culturale” è andata in qualche modo oltre con l’altro illustre artista ciociaro Umberto Mastroianni che, da vicino o da lontano, lo ha positivamente influenzato; quanto meno nella sua ricerca in campo aniconico/strutturale. Per di più, il nostro ha seguito studi universitari di architettura che lo hanno definitivamente e magistralmente determinato a risolvere lo spazio in edilizia così come nell’arte visiva.
Bianchi durante la sua ultra-quarantennale carriera si è dimostrato instancabile nella condotta ideativa e soprattutto nell’affondare la propria curiosità verso le possibilità espressive dei più svariati materiali: legno, carta, spago, metalli, plastiche, pietre colorate, fino a ad assemblarli in sontuosi polimaterici belli e preziosi, si faccia riferimento per esempio al trittico “Les jardins du palais”. Egli è un irrequieto sperimentatore, un ricercatore ad oltranza di contenuti e maniere estetiche. Partendo da una figurazione tradizionale già agli esordi include spazi dilatati, come pause tra le immagini. Da subito predilige allontanare le figure, le forme, nella superficie pittorica mettendo in scena una sorta di dialogo a distanza tra loro. Reciprocità tra personaggi o tra uomini e cose, sempre mediata dallo spazio. Un vuoto nel quale spesso si rincorrono frammenti di colore a mimare il movimento, l’azione, forse anche la parola. Paradigmatico il dipinto tra astrazione e figurazione “Mangiatore di cocomero” del 1982, oggi in collezione privata.
L’artista, inoltre, ha sempre dimostrato attenzione per gli animali; a suo dire attratto dalla la loro vita allo strato brado. Può darsi che sia l’autosufficienza e la naturalità della vita animale ad interessarlo. Il senso di libertà degli uccelli o l’autonomia dei gatti informano la sua indipendenza di artista: originale e affrancato dal cosiddetto “sistema dell’arte”. Pappagalli tridimensionali, in legno e altri materiali, prodotti in grande quantità in un crescendo ossessivo a realizzare installazioni dal forte effetto scenografico. Uccelli che provocano, tra l’altro, un diffidente richiamo tattile. Presenze inquietanti, silenziose, come in attesa di eventi imminenti e poco rassicuranti. Narrazione muta di un dramma incombente. Una sorta di citazione cinematografica da Hitchcock. Montaggio situazionista di elementi che possono variare di numero e di posa a seconda del luogo espositivo. Arte plastica e ambientale che l’autore propone da vero e proprio regista. In ultima analisi, si tratta di adattamenti accattivanti per la loro ossimorica natura sospesa tra dolcezza e aggressività. Opere nelle quali la quiete apparente, la funzione simbolica dei protagonisti, la loro ritmica posizione, esprimono anche una indubbia fascinazione poetica.
Panorama fantastico e surreale, quindi, costruito mediante manufatti concreti, immobili, eppure capaci di invadere prati, piazze, gallerie – in pratica sedi espositive all’aperto o al chiuso – per dare sfogo al talento immaginativo dell’autore. Mentre, l’opera squisitamente dipinta che caratterizza la produzione più recente dell’artista è data da tele in cui campeggiano eleganti rarefazioni segniche a regolare lo spazio. Estensioni che si svelano in larghe campiture monocromatiche. Irregolari scacchiere bianco su bianco, magistralmente attraversate da lacerti di grigio stinto o altre nuances appena accennate, abrase. Solo qualche punto di luminoso colore o linea netta, geometrica, a mettere ordine, a conferire una struttura. E sovrapposizioni di sgranate velature per vivacizzare la superficie spiazzandone la nitidezza percettiva. Tuttavia, ciò che sostiene primariamente questi dipinti è il segno, progettato nel suo schema complessivo ma spontaneo nella sua realizzazione immediata, senza ripensamenti.
Tratto essenziale, deciso per quanto esile, indirizzato ad affollarsi verso fughe prospettiche o a diradarsi nelle zone periferiche del quadro; mantenendo sempre un sapiente equilibrio formale nella composizione. Opere sorrette da segni portanti come linee di forza tensiva, capaci di flettere e tuttavia resistenti, risolutive nell’indicare la stabilità dell’insieme. Incisioni nel corpo vivo dell’impasto cromatico, sicure nella loro traiettoria ma il cui verso non è dato sapere o quanto meno non è sempre stabilito a priori dall’autore che, a volte, consente al fruitore l’orientamento dell’opera. In questo senso si stabilisce una effettiva interazione tra l’artista e lo spettatore. Una specie di cooperazione attiva alla creazione finale, ciò rende ancor più singolare e affascinante l’arte di Bianchi. Nei dipinti degli anni ottanta il segno è, invece, più frenetico e il colore maggiormente timbrico, magmatico, più affine alla temperie informale, ciò nondimeno la presenza a margine di un animale, reso pittoricamente o in maniera plastica, è già frequente; si tratta evidentemente di un elemento non solo stilistico ma concettuale. Sagome di gatti o uccelli riconoscibili, non a corollario estetico della pittura bensì interpreti di un mondo che va al di là del reale quotidiano, per affondare nella pura e divertita immaginazione.
Divertita, per ammissione dello stesso artista che ama ripetere “il lavoro artistico per me è un gioco”, naturalmente un gioco che svolge seriamente. Queste opere di circa quarant’anni fa sono dense di materia cromatica e di gesto, sostanzialmente “lavori per addizione”; diversamente dagli attuali definibili “lavori per sottrazione” nei quali, appunto, dirada il colore e trattiene il gesto ottenendo risultati di esemplare raffinatezza. L’attuale capacità di sintesi conferisce un aspetto analitico alla sua tecnica, e un ulteriore carico lirico alla sua creatività. In questo senso le opere recenti risultano spesso ermetiche, misteriose, come portatici di verità nascoste. Nonostante ci siano alcune suggestioni apertamente dichiarate nel titolo, come nel caso della magnifica tela “Nostalgia del Natale” del 2021. In genere questi quadri non dicono tutto di se. Lasciano intuire, facendo affidamento sulla capacità introspettiva del linguaggio visivo non rappresentativo e sulla sensibilità dello spettatore. Alcuni di essi ricordano la leggerezza e la sofisticata evanescenza delle opere di Melotti oppure l’eleganza segnica di Elisa Montessori. Sebbene la pittrice genovese orienti il suo tratto prevalentemente al mondo naturalistico, mentre il nostro si rivolge con maggiore attenzione alla scena urbana. Infatti, alcune tra le sue opere più rivelative si intitolano “Crocevia”, “Sky City”, “Unità abitative rosse”, tutte allusive di una progettazione civica, ma nelle quali prevale la ricerca e la progettazione del segno e della luce a significare che l’indole dell’artista visivo domina sull’indole dell’architetto. In conclusione, l’intero itinerario creativo di Franco Bianchi è riassumibile in una straordinaria operazione di equilibri formali e cromatici. E in qualche caso sono sufficienti solo le diverse intensità dei grigi – come nel delicato, diafano, “Giochi di matita”, del 2009 – aiutate da esili solchi di grafite per realizzare un totale bilanciamento, un’armonia assoluta. Per costruire tutto un equilibrio sopra la poesia.