DeGenerazione – memorie di un assassino
di
Marco Fosca ed Emilio Mantova
X
Mio figlio non era
Varcando la soglia del negozio, l’odore sprigionato dalla lampada a olio non era per niente gradevole ma, per così dire, dava una certa sensazione di essere ben accetti. Il signor Refice senior era un uomo sulla settantina, magro e ricurvo, con un naso lungo e leggermente schiacciato che dava al suo volto un’aria benevola. Benché i capelli fossero quasi bianchi, le sopracciglia erano folte e nere. Gli occhiali, unitamente ai suoi modi gentili e precisi e al fatto che indossava una vecchia giacca di velluto nero, restituivano a chi lo osservava un aspetto da intellettuale d’altri tempi. Parlava con voce sommessa, quasi bisbigliando e, rispetto alla maggioranza della gente del posto, che avevo avuto ascoltato, aveva un accento e una dialettica molto curata.
– Posso fare qualcosa per voi? O volete solo dare un’occhiata? –
– Ecco volevo dare solamente uno sguardo se non le dispiace. –
– La prego faccia pure. –
Il minuscolo ambiente del negozio era stracolmo di oggetti di ogni tipo buttati lì alla rinfusa. Più che un negozio d’antiquariato mi dava l’impressione di un negozio di un rigattiere. Anche sul pavimento non era rimasto molto spazio, bisognava stare attenti a dove mettere i piedi. Tutt’intorno alle pareti erano ammucchiate cataste di cornici impolverate. In vetrina c’erano vaschette piene di minutaglia metallica di ogni tipo: scalpelli, temperini, penne, fermacarte, antiche monete, spille e vecchi orologi a cipolla che non davano nemmeno l’idea di poter funzionare. In un angolo, c’era un tavolino letteralmente invaso di oggetti che non potevano essere più eterogenei tra loro: tabacchiere laccate, lustrini, vecchi telefoni e un grammofono. Accidenti, pensai, quel vecchio grammofono è identico a quello che era appartenuto a mio padre.
– Non credo ai miei occhi. Quello è un grammofono “Victor Talking Machine”! –
– Esattamente signore, modello Victor V, con tanto di tromba e mobiletto con il piatto. Tutto in mogano ovviamente. Dentro il mobile, l’apparecchio è provvisto di un doppio motore a molla azionato dalla manovella posta sul fianco destro della base. Il piatto è sul piano superiore del mobiletto ed è rivestito da feltro grigio. Il diaframma è sostenuto dal braccio, al quale è connesso attraverso un perno a collo d’oca. Come certamente saprà, il braccio è sostenuto da un supporto posteriore in ghisa composto da un tubo a gomito in metallo, sul quale è innestata la tromba in mogano. –
– Non ci crederà ma ne possiedo uno identico. Ci tengo molto, perché è l’unico ricordo che mi resta di mio padre. Me l’ha regalato proprio lui. –
– Allora sa farlo funzionare. –
– Certamente. –
– Metta questo disco. –
Il vecchio mi passò un disco di musica classica. Inserito il disco sul piatto, caricai il motore a molla per mezzo della manovella, selezionai la velocità di riproduzione e avviai la rotazione del disco. Tutto questo naturalmente, dopo aver abbassato la punta del diaframma sul disco. La puntina iniziò a scorrere all’interno del solco dell’incisione del disco, le oscillazioni della puntina prodotte dal profilo irregolare dell’incisione provocarono quel suono simile al rumore generato in cucina quando si frigge a fuoco lento. E subito dal fiore metallico si diffuse la musica. Erano sensazioni uniche. Mentre mi abbandonavo alle dolci note classicheggianti, la mia attenzione cadde anche su un oggetto semisferico e levigato. Lo presi, era un pesante blocco di vetro, curvo da un lato e piatto dall’altro, che aveva la forma di un emisfero. Al suo interno, ingrandito dalla superficie ricurva, era visibile la perfetta riproduzione di un antico veliero. Era curato nei più piccoli dettagli.
– Quello che ha in mano signore è un fermacarte appartenuto a Enrico Fermi, un oggetto davvero squisito. È stato ritrovato nel famoso istituto di Via Panisperna, dove era il suo ufficio. Un mio amico che era addetto alle pulizie me l’ha venduto dopo averlo trovato buttato in mezzo a delle carte che stavano mettendo via. Il dottor Fermi l’avrà certamente dimenticato prima di partire oltreoceano per proseguire i suoi studi sull’energia atomica. –
– Davvero? È un bell’oggetto. – commentai.
– Lo è certamente ma, al giorno d’oggi, non sono molti quelli che lo apprezzerebbero. Detto fra noi l’antiquariato è quasi finito. Manca la domanda e manca anche l’offerta; non creda che sia facile reperire oggetti simili. A prima vista possono sembrare di scarso valore ma in realtà hanno tutti una storia alle spalle. Comunque se quel fermacarte le interessa posso farle un prezzo davvero speciale.-
– Al dire il vero non sono venuto qua per acquistare qualcosa. –
– E che cosa è venuto a fare, allora? –
– Sono un collega di suo figlio Emiliano, a dir la verità, qualcosa di più di un collega. –
A quelle parole il volto del negoziante cambiò immediatamente espressione e i modi, che prima erano gentili e affabili, divennero subito freddi e ostili. – Io non ho più niente da dire. Ho già detto tutto alla polizia e agli avvocati rappresentanti dell’azienda. Se anche lei è venuto qui per convincermi che Emiliano s’è suicidato ha fatto un viaggio a vuoto. Non crederò mai alla versione del suicidio. Mio figlio non era il tipo da compiere un gesto del genere, se lo metta bene in testa e lo riferisca ai suoi “colleghi”. –
– Vede, io sono venuto qua perché la penso esattamente come lei. Sembra assurdo anche a me che Emiliano si sia suicidato, mi sembra un gesto impossibile per un uomo come lui. –
Dicevo quelle parole fingendo di conoscere suo figlio da una vita.
– Mi scusi se sono stato aggressivo, ma pensavo che anche lei fosse venuto per convincermi del contrario. Cosa vuole che le dica un padre che ha perso il figlio? Ho provato a spiegarlo alla polizia e l’ho detto più volte anche agli avvocati. E lo sa che cosa mi hanno risposto? Sindrome da stress causato dal lavoro. Mi hanno detto che è comune a molte persone la forte depressione che può sopraggiungere davanti alla possibilità di licenziamento. Hanno detto che i nervi di Emiliano non hanno retto. I legali della S.I.M. mi hanno addirittura mostrato una carta con la firma di Emiliano, in cui faceva richiesta di fissare una serie di sedute con lo psicologo aziendale: “Vede signore, questo dimostra che suo figlio era caduto nella spirale della depressione, ci rincresce molto che non abbiamo avuto il tempo di curarlo dall’oscuro male. Non c’è stato il tempo. Emiliano non ce l’ha concesso. Due giorni dopo aver inoltrato la richiesta di aiuto si è tolto la vita. Non c’ha dato il tempo.” Questo è quello che mi hanno risposto. Ma, per me, sono un cumulo di menzogne. Io non ci crederò mai! –
– Siamo in due allora a non crederci, signor Refice. –
– Ma c’è di più e l’ho detto più volte: perché uno che vuole suicidarsi una settimana prima prenota un biglietto aereo per la Spagna? Non ha senso. Per me non ha davvero senso. Ma tutti mi hanno risposto che non è un indizio sufficiente per aprire un’indagine di omicidio. Questo mi ha fatto capire che c’è qualcosa sotto e che non erano dalla mia parte. La parte della verità. –
– Io voglio andare in fondo a questa storia ma ho bisogno di un punto da cui partire. Parlare con lei non ha fatto altro che avvalorare la mia ipotesi. Non sapevo, infatti, che Emiliano era in partenza. –
– Mi segua, voglio mostrarle una cosa che non ho mostrato a nessuno; credo che possa essere importante, ma non ne sono sicuro. Sopra c’è la stanza di Emiliano, l’ultima volta che è stato qui ha lasciato dei documenti. Inizialmente volevo dirlo alla polizia e agli avvocati ma, visto il loro comportamento, ho pensato che prima era meglio vederci chiaro. Non so che cosa c’è scritto, perché non sono scritti in italiano. –
Refice senior accese un’altra lampada, poi, camminando ricurvo, mi condusse su per le ripide scale consumate, quindi per uno stretto corridoio, fino a quando giungemmo in una camera che non dava sulla strada, ma si affacciava su un cortiletto. La prima cosa che mi colpì in quella stanza era che i mobili erano disposti come se fosse ancora abitata. Sul pavimento c’era un grosso tappeto che copriva tutta la superficie della stanza, ad eccezione dell’angolo di apertura e chiusura della porta. Su ogni parete vi era appeso un quadro e, vicino al camino, vi era una poltrona. Sulla mensola del caminetto ticchettava un vecchio orologio a pendolo. Sotto la finestra, occupando all’incirca un quarto della stanza vi era un enorme letto a baldacchino con lo scheletro in mogano. Al centro, una vecchia ma raffinata scrivania in radica completava l’arredamento della stanza.
– Ecco che le faccio vedere… – a questo punto avvenne la magia: svitando la lampadina della lampada poggiata al lato sinistro della scrivania, si azionava un meccanismo che faceva spuntare dal nulla un cassetto segreto sotto il piano del tavolo. – voilà! Scommetto che non ha mai visto una cosa del genere. –
– Ad essere sincero è la prima volta che vedo una diavoleria simile. –
– Ecco, questi sono i documenti di cui le parlavo. Voglio fidarmi di lei, perché è la prima persona che non crede al suicidio di Emiliano. E poi cos’altro posso fare, se non fidarmi di qualcuno? Sono rimasto completamente solo e sono vecchio. Non mi resta che confidare in lei. L’unica cosa che le chiedo è di restituirmeli dopo che ne avrà presa visione. Sono l’ultima cosa che mi resta di mio figlio. –
– Non si preoccupi, le garantisco che appena li avrò tradotti glie li restituirò personalmente. –