Passati quasi due mesi di lavoro nella fabbrica mi accorsi di non aver guadagnato o perduto niente. Voglio dire che mi resi conto di essere la stessa persona di cinquanta giorni prima, la stessa da tanto tempo, e che niente era cambiato dentro o fuori di me, che cioè la mia vita era rimasta uguale, senza nemmeno mostrare i segni di una lieve trasformazione.
Lasciavo ogni giorno la mia abitazione, viaggiavo, lavoravo, andavo alla mensa, incontravo centinaia di persone, lavoravo nuovamente, tornavo stanco a casa, ecco tutto. Dentro di me dopo due mesi non era cambiato niente. Dovevo convincermi a pensare: sono un tecnico, lavoro in una grande industria. Ma anche pensandole queste cose, non riuscivano a smuovere qualcosa dentro di me. Soltanto mi tornava in mente il mio armadietto nello spogliatoio, con il suo numero inciso a fuoco e il lucchetto che, sotto le mani, aveva un sapore diverso da tutti gli altri metalli che maneggiavo durante il turno di lavoro. Con il passare dei giorni, dei mesi, la fabbrica mi piaceva sempre meno; era meno bella, più usata, più sporca. Anche il lavoro cominciava a piacermi meno e la macchina non mi entusiasmava più; il suo stesso rumore pesante diveniva sempre più insopportabile. I pezzi da lavorare, poi, tutti insieme nella cassetta, mi davano un senso di spavento e dopo di fastidio. Quanti erano… ognuno uguale all’altro, irriconoscibili; quale sarebbe stato il primo? E quale l’ultimo? E perché? Quante volte avrei dovuto fare avanti e indietro, innestarli, avviare il motore, chinarmi, soffiare, rimetterli a posto?
All’inizio, quando i pezzi finiti erano ancora pochi e, nella cassetta, sembravano tanti poveri orfanelli vestiti di grigio con le bocche aperte a mostrare i loro denti; quelli da finire, ancora molti di più, erano prepotenti e sembravano un reggimento di soldati armati di spade.
Cosi andava la mia giornata dietro la cassetta dei pezzi. Questo misurava il mio tempo e stabiliva con la sua luce diffusa su ogni pezzo della fabbrica, come in una visione, che dietro quelle maledette cassette andava anche la mia stessa vita.
È per questo, dunque, che ci avete privato dei nostri diritti e della nostra libertà? Credete di prenderci per il culo con i contentini? Una macchina usata con la quale recarsi a lavoro tutte le mattine? Una baracca che potrebbe, se uno fosse abbastanza ignorante, chiamare casa? Un’istruzione adeguata ai nostri figli che li strapperebbe al vizio e all’ignoranza? Una vita sana, pulita, in mezzo alla miseria, ai delitti, al sudiciume, alle malattie e alle paure? Una paga che ti consenta appena di tenere la testa fuori dal puzzo? La radio, il telefono, il cinema, la televisione, anzi, le televisioni di cui, una, in camera da letto? Sono queste le cose che danno valore alla vita? Qual è il significato dunque della nostra vita, delle nostre attività, del nostro lavoro, del nostro essere schiavi del sistema?
Semplici e sostituibili ingranaggi di un enorme mostruoso meccanismo. In questo siamo stati trasformati. Prima o poi saremo scartati e sostituiti da altra carne meccanica. Pochi sono capaci di sfuggire alla “macina del mulino del tritacarne umano”.
Per vivere fuori dalla società, lavorare per il piacere di lavorare, invecchiare dignitosamente conservando le proprie facoltà, i propri entusiasmi e il rispetto di sé, occorre stabilire valori diversi da quelli approvati dalla massa. Sterili palazzi, pozzi petroliferi, ciminiere, ospizi, code di disoccupati, scatolami vari, centri commerciali e vetrine illuminate al neon non sono traguardi da raggiungere. Pochi avranno il fegato di sopravvivere a tutta questa sterilità. Si formeranno organizzazioni di eutanasia per far fuori tutti coloro che non sono adatti ai terrori di questa non vita. Il campo di battaglia, assieme al campo industriale, fornirà loro tutti i pazienti che vogliono. Diciamo di esseri democratici, amanti della libertà, liberi dal pregiudizio e dall’odio.
Il sistema fabbrica è il crogiolo del conformismo, del rispetto assoluto delle regole, è la sede di un grande esperimento umano. In realtà siamo una turba volgare e aggressiva le cui passioni sono agevolmente mobilitate e inculcate da demagoghi, politicanti, giornalisti faziosi, ciarlatani della religione, agitatori e istigatori e roba simile e derivati. Chiamarla una società di gente libera equivale a bestemmiare. Che cosa abbiamo da offrire al mondo oltre al sovrabbondante bottino che mettiamo nelle nostre tasche senza posa alla terra nella folle illusione che quest’insana attività rappresenti progresso?
Terra di sudore e lotta insensata.
Dove sono le nostre guide? Dov’è il banchetto promesso?
Non esiste nessun leader, nessuno schieramento politico capace di inaugurare un vento di cambiamento. Può darsi, che un giorno, vi riescano i lavoratori del mondo, un giorno, se smetteranno di prestare ascolto ai loro capi fanatici, ad organizzare una fratellanza mondiale della classe lavoratrice. Ma gli uomini non possono essere fratelli senza prima diventare pari, cioè uguali nel senso più stretto della parola. Lottiamo a testa bassa e soprattutto con gli occhi chiusi! Questo mondo che stanno cercando di creare mi riempie d’orrore. L’ho visto germinare; posso leggerlo come un libro stampato. Non è un mondo in cui voglio vivere. È un mondo adatto ai maniaci ossessionati dall’idea del progresso, ma di un falso progresso, un progresso per pochi, un progresso che puzza. È un mondo ingombro di oggetti inutili che uomini e donne, per farsi sfruttare e avvilire, imparano a considerare utili. È un enorme crogiolo dove tutti i valori sono ridotti in scorie putride.
Il “manifesto della società capitalista” è lo spreco. Ma chi è sprecone non è saggio. Per trasformare l’energia a livelli più elevati e sottili occorre prima conservarla. Anche le macchine vanno trattate con perizia se si vuole ottenere da loro il massimo rendimento. A meno che, non se ne producano in tali quantità da potersi permettere di scartarle prima che siano diventate vecchie e superate.
In fabbrica le proporzioni erano più o meno queste: circa duemila uomini, ripartiti in tecnici e operai, e mille donne ripartite tra operaie, segretarie e addette alle pulizie. Il gruppo di maggioranza in termini di numero tra le donne e tra gli uomini spettava ovviamente alla categoria operaia. C’era una secca divisione, uno spartiacque molto ben definito nei rapporti sociali all’interno delle mura della fabbrica. La divisione era anche e soprattutto sessuale; nel senso che si evitava il più possibile di costituire gruppi di lavoro misti uomo-donna. La filosofia era uomini da una parte e donne dall’altra. Era per evitare distrazioni inutili si sentiva dire come giustificazione a questa linea di condotta. I vertici, i piani alti, non volevano che tra di noi ci fosse aggregazione più dello stretto necessario. Non volevano rapporti umani tra di noi. Volevano che ci comportassimo come automi, come macchine. Non era nostro compito pensare. Non venivamo pagati per pensare.
Come dicevo, esclusa ovviamente la parte direzionale, il gruppo degli uomini era suddiviso tra operai e tecnici. Questi due “sottogruppi” della tassonomia di fabbrica non interagivano minimamente tra loro. Erano come due mondi a parte. Io, avendo conseguito il diploma, facevo parte del sottogruppo dei tecnici. Gli operai erano quelli che non avevano conseguito il diploma; erano considerati (dopo le addette alle pulizie) l’ultimo gradino della scala sociale gerarchica del sistema fabbrica.
È necessario fare una piccola ma importante precisazione. Di solito la divisione gerarchica del lavoro all’interno del sistema fabbrica pone prima gli amministratori e gli impiegati, i tecnici poi; seguendo sempre una linea gerarchica che va da chi ha più potere a chi ne ha sempre meno. “Potere” inteso come la possibilità di fumare qualche sigaretta in più e di potere andare con maggior frequenza al cinema o a mangiare una pizza con gli amici.
Il padrone o il padronato se ce n’era più di uno, era la punta dell’iceberg, la vetta, il gradino più elevato della scala gerarchica dell’organizzazione di fabbrica. Quindi, il sottogruppo di cui io facevo parte, ossia quello dei tecnici, era per cosi dire più sbilanciato verso il padronato piuttosto che orientato, come sarebbe stato più naturale, verso il sottogruppo degli operai. Ricordo che a quel tempo, per un tecnico, prendere anche un semplice caffè con un operaio era visto come un gesto quasi infamante. Dunque il separatismo era voluto, favorito e direttamente causato dai vertici. Alla fine tirando le somme (escluso ovviamente il padronato che poggia il suo grasso e flaccido culo sulle schiene degli operai) facevamo tutti parte dell’immenso, grandioso, perverso, processo produttivo; eravamo tutti piccoli ingranaggi della mostruosa e grandiosa macchina produttiva. In fin dei conti la posizione dei tecnici non era molto diversa da quella degli operai. Con questa filosofia e con questo modo di approcciare alle cose, cominciavo a sentirmi più operaio che tecnico. Spesso riflettevo: chissà quanti altri tecnici la pensano come me ma hanno paura di dichiararlo pubblicamente? Questa era la situazione presente nelle fabbriche almeno stando alle discussioni che facevo con altri operai di altre fabbriche che mi capitava di incontrare.
Fomentato e condizionato dai miei compagni universitari che dividevano l’appartamento con me, cominciai a prendere coscienza che tutte quelle divisioni, tutte quelle compartimentazioni non avevano ragione d’essere. A quel tempo, infatti, per motivi economici, dividevo un appartamento con diversi compagni. La nostra abitazione era in realtà una “casa-comune” in continua espansione. Si era trasformata in un punto di incontro per tutti quelli che in seguito avrebbero militato nell’organizzazione K.K., che di lì a poco si sarebbe formata. Non c’era scissione fra vita politica e vita personale. Solo le camere da letto erano separate e a volte neanche quelle. C’era una grande sala comune con i muri tappezzati di manifesti e di scritte; ognuno lasciava lì il suo messaggio, quasi sempre prendendosela ferocemente con qualcun altro o il più delle volte contro qualcos’altro. Si erano formate delle coppie ovviamente. Molti di noi misero in cantiere diversi marmocchi. Il risultato fu che la comune si riempì di neonati tant’è che dovemmo organizzare una sorta di asilo nido in piena regola. Me ne occupai anch’io per qualche tempo. Mi piaceva stare con i bambini, mi rilassavano, ecco tutto. Da principio eravamo in otto, di provenienza ed estrazione sociale diversa: tutti del movimento studentesco, Marxisti, Anarco-Sindacalisti, ed altre incomprensibili sigle che lasciavano il tempo che trovavano. Altri, come me, erano senza partito e senza una vera ideologia. Anche cosi diversificati, la convivenza scorreva senza problemi se non quelli legati alle faccende domestiche da svolgere. I turni in cucina o per lavare i piatti ce li giocavamo a briscola davanti ad un buon bicchiere di vino e a interminabili e innumerevoli sigarette. Fumavamo tutti. La nebbia che all’esterno abbracciava le strade nella stagione invernale era invece sempre presente in casa durante tutte le stagioni. Era la nebbia causata dal fumo delle sigarette. Bei tempi!
La gente si aggregava volentieri, aveva voglia di stare assieme; si faceva un mucchio di domande e aveva abbastanza entusiasmo da tentare di dare anche delle risposte. L’idea della “comune” nacque un po’ per caso e un po’ per necessità. Alcuni di noi lavoravano nella stessa zona mentre altri venivano dalle facoltà che si trovavano a molti chilometri dal nostro appartamento. È pratico prendere un unico grande appartamento e abitarci tutti insieme. Potevamo discutere della situazione politica senza diventare matti con le incombenze domestiche e inoltre, non cosa di poca importanza, potevamo risparmiare un sacco di soldi, dividendoci le spese. A ripensarci, credo che soprattutto ci tentasse un’avventura esistenziale di rottura degli schemi borghesi di vita sociale. Ricomponevamo quel tanto di pubblico che stavamo vivendo insieme con quel tanto di privato che per la maggior parte della gente normale borghese si arresta sulla soglia di casa.
Nelle Università poi la situazione era già in pieno fermento. Erano quasi sempre occupate, che si facessero lezioni oppure no il clima era di totale insubordinazione, il caos. Una situazione caotica, entropia all’ennesima potenza. Ma che meraviglia, era bellissimo! Mi colpiva soprattutto la fantasia degli studenti e dei loro slogan fatti di un linguaggio o incomprensibile o di un estremismo fantastico. Noi delle fabbriche subimmo molto il fascino del movimento studentesco, più di quanto fossimo disposti ad ammettere. Ragionandoci sopra non so che cosa il flusso di studenti abbia travasato negli operai, credo che portassero molto della loro esperienza e ne avessero in cambio molte delle nostre frustrazioni. La scintilla che accese il fuoco capitò l’anno del rinnovo del contratto nazionale dei lavoratori.
Un bel giorno, nel reparto dove lavoravo vidi irrompere un gruppo di operai scalmanati; gridavano contro i padroni. Non sembrava che ce l’avessero con noi; del resto io ero sicuro al cento per cento di non essere un padrone. In quel momento è come se nella mia testa fosse scattata una molla e, a farla scattare, era stato proprio quell’episodio. Alla fine, sotto gli occhi increduli dei miei colleghi tecnici, mi unii al grido ribelle degli operai e uscii verso il cortile al loro fianco, a fianco della classe operaia. In quel momento non me ne rendevo conto ma stavo assistendo all’organizzazione in fase embrionale e primordiale della classe operaia. Quel giorno non potrò mai dimenticarlo.
Gli operai avevano iniziato a pensare da operai, non erano più soltanto automi assorbiti dal sistema produttivo, erano esseri pensanti, si era scardinato l’ingranaggio che li aveva ingabbiati nella faraonica macchina dai tempi della rivoluzione industriale. Quel giorno posso affermare di aver sentito gli operai parlare, comportarsi e organizzarsi da operai. Quel fatidico giorno, inizialmente, anche gli operai mi guardarono con sospetto. In quel momento non ero né carne né pesce, ero nel mezzo come alle volte si trova la verità. Dovevo subito conquistarmi la fiducia dei nuovi amici operai. Ma mi ci volle poco. Il mio obiettivo però era quello di avvicinare i due mondi, quello degli operai e quello dei tecnici. Dopotutto i tecnici non si potevano più considerare intellettuali, giacché non eseguivano che un segmento parcellizzato del ciclo, come gli operai, solo che avevano una penna in mano. Inoltre i livelli salariali erano bassissimi quanto per gli operai che per i tecnici. La conseguenza fu che fui isolato. Ma non volli arrendermi.
Fu in quel periodo che capitò nella nostra casa-comune quello che in seguito sarebbe diventato uno dei massimi esponenti dell’organizzazione K.K.. Lo chiamavano tutti Aprile. Diceva di trovarsi isolato dagli altri compagni che molto probabilmente erano finiti in galera oppure chissà dove.
– Sono in mezzo a una strada da settimane, e non per modo di dire. Ma è quello che ci vuole per la guerriglia urbana! Ti muovi in città, dove più alto è il controllo degli apparati di polizia, sei come accerchiato, mai davvero al sicuro. Quello che so è che alcune basi sono cadute, non so perché, devo presumere che sono cadute tutte probabilmente. Cerco qualcuno che mi ospiti per la notte. – la sua faccia era seria e preoccupata. – Di giorno cerco i compagni ancora in circolazione, di notte rimango nascosto; è più sicuro agire in questo modo. Il colpo inferto dallo Stato è stato duro ma non abbastanza da sconfiggerci. Ho saputo che alcuni compagni si stanno riorganizzando. La vecchia struttura è azzerata comunque, ma i compagni, che sono poi quello che conta, sono ancora al loro posto. Dobbiamo ricominciare. Dobbiamo rialzarci.-
Fu allora che decidemmo due cose: attrezzarci per la guerriglia e impiantarci nei maggiori poli industriali, organizzandoci per colonne, autonome politicamente, compartimentate e in grado di agire senza dipendere da altre. Le basi, le case, le armi, ci occorreva di tutto. Non ci servivano tiratori scelti inizialmente, ma siccome per passare un posto di blocco occorrevano documenti perfettamente falsificati, c’era la necessità di reperire falsari esperti. Per la clandestinità bisogna disporre di officine, tipografie, piccoli laboratori. Dovemmo risolvere tutto con le nostre uniche forze, inventarci il come e il che cosa. Devo ammettere che ci fu una certa genialità operaia nel saper fare e fare bene. Il nostro materiale umano, infatti, veniva prevalentemente dalle industrie e quindi possedeva delle competenze che permettevano di inventare qualsiasi cosa. Non si ha idea di cosa riesce a fare gente di questo stampo, quando è fortemente motivata. All’inizio ci finanziavamo attingendo dai nostri miseri stipendi, poi avvenne la svolta. I soldi non bastavano, l’autofinanziamento non era sufficiente. Alcuni avevano individuato una banca, dove d’estate con il turismo giravano parecchi soldi. Ok: presi la prima settimana di ferie della mia vita per compiere la prima azione armata della mia vita. Materialmente la facemmo in quattro. Tutti inesperti di armi e di rapine. Eravamo preoccupatissimi. Oltre al moralismo operaio che ci trascinavamo dentro: “un operaio non ruba!”, che cosa ci autorizzava a dire che si agiva in nome della rivoluzione? Che cosa differenzia un esproprio da un furto puro e semplice?
La prima volta seguimmo la tecnica vista nei film. Le armi erano una più ridicola dell’altra. Quello che faceva il palo fuori aveva una calibro 6,35: un affarino che ci spaventavi a mala pena un cane di piccola taglia; uno dei due che entrarono in banca con me aveva una Flobert a tamburo dall’aria terrificante, ma vi assicuro che era tutta scena. La sola pistola efficiente ce l’avevo io e, ironia della sorte, non avevo messo neanche il colpo in canna: mi era sembrato prudente evitare ogni eventualità che per sbaglio partisse un colpo. Il quarto, l’autista, niente pistola: a che serve un’arma se uno deve guidare? Emozionantissimi e impauritissimi, irrompemmo nella filiale e pronunciammo la famosa frase: “Mani in alto, questa è una rapina!” Avevamo i volti appena camuffati. Chi non aveva i baffi se ne era messi di finti e chi li aveva se li era tagliati. Ricordo perfettamente tutta la scena: tutti alzarono le mani impietriti e io che spingevo con decisione un cancelletto di quelli bassi che non si aprì perché sbattè contro un impiegato che mi disse: “Guardi che se la tira verso di sé forse è meglio”. Tutto andò per il verso giusto. Prendemmo i soldi e fuggimmo rapidamente. La rapina ci aveva fruttato bene, circa nove milioni. I soldi li lasciammo a una compagna che aspettava ai margini del paese con in braccio il suo bambino. Il pannolone fu appesantito dalle banconote che ci infilammo dentro.