Il mio incontro-scontro con il sistema-società iniziò in fabbrica: quel miscuglio d’organizzazione, quell’esperimento umano di efficienza, di cieca obbedienza e disciplina che si amalgama e si fonde per scontrarsi con l’umanità delle persone che intrecciano il loro destino: NEL NOME DELLA PRODUZIONE!
L’esordio per me iniziò alla Sideral spa.
Andavo avanti e indietro tutte le mattine con il treno delle 05:15, dopo mezz’ora di strada fatta a piedi per arrivare alla stazione da casa perché a quell’ora non passavano ancora le linee dei tram. Soltanto chi fa il pendolare può avere un’idea di cosa sia freddo e nebbia nei mesi invernali a quell’ora. Quelli che sanno di cosa parlo, sono persone taciturne e infreddolite che puoi incontrare solamente la mattina presto all’alba. Nessuno sa dove va l’altro; a nessuno frega un cazzo dell’altro, perché hanno tutti sonno e poi sono tutti incazzati. L’unica cosa che sanno è che si deve andare a mettere il cartellino nelle viscere di una macchinetta infernale che, dopo averlo inghiottito, digerisce ruttando meccanicamente quanto ingoiato. Per me il triste spettacolo iniziava con la visione delle automobili parcheggiate davanti allo stabilimento. L’automobile, nella mia mente, era il perfetto simbolo della falsità e dell’illusione. Erano là, a migliaia, in tale proliferazione che, sembrava, nessun uomo sarebbe stato troppo povero per possederne una. Nei paesi del terzo e del quarto mondo masse di umanità guardano con l’acquolina in bocca a quel “paradiso artificiale”, dove l’operaio va a lavoro con l’automobile. Non si chiedono però che cosa c’è dietro quel privilegio. Non si domandano che cosa di se stessi è necessario sacrificare. Non capiscono che l’operaio smonta dal turno dopo aver consegnato anima e corpo alla fatica più inconcludente che si possa fare per avere quel contentino metallico. Vedono il lustro e le vernici delle cianfrusaglie, non vedono l’amarezza, lo scetticismo, il cinismo, il vuoto, la sterilità, la disperazione, la stanchezza, la sfiducia che divora l’operaio.
Ricordo perfettamente il mio primo giorno di lavoro.
Il caporeparto arrivò puntualmente, ripose i giornali, prese il suo camice e ricompose con lo sguardo la nostra squadretta di nuovi tecnici. Intanto arrivavano alla spicciolata tutti gli altri vecchi tecnici, con aria indolente e quasi ribelle: sembrava che tornassero nei reparti per prendere qualcosa che vi avevano lasciato. Con animo ben diverso, io, di fronte al caporeparto, mi accingevo al lavoro.
– Questa è una fresatrice pialla a ciclo automatico, – mi disse indicando la macchina che avevamo davanti agli occhi; – viene costruita dalla nostra officina meccanica e si chiama FP3. Serve a lavorare una serie di pezzi di dimensioni medie. Pensate a una pialla comune che un falegname adopera su una tavola e pensate poi allo scalpello che lo stesso falegname debba adoperare per fare qualche incisione nella stessa tavola. Questa fresatrice fa le stesse cose sul ferro e sulla ghisa. –
Il caporeparto ci spiegò, inoltre, e dettagliatamente ogni parte della FP3, facendola ogni tanto funzionare e invitandoci a vedere il lavoro degli altri tecnici del suo reparto per chiarirci meglio qualche dettaglio. Ogni nuovo tecnico doveva fare almeno sei mesi di gavetta con le fresatrici. Doveva arrivare a produrre trenta pezzi l’ora, cioè un pezzo ogni due minuti. Si prendeva il pezzo dalla cassetta dei grezzi che arrivava dalla fonderia, lo si lavorava e poi via nella cassetta dei finiti; tutto in due minuti. Nel reparto, dove presi servizio, i tecnici erano ventitré e con noi nuovi arrivammo a trenta unità. A metà turno, noi sette nuovi tecnici, dopo la prima spiegazione del caporeparto, potevamo cominciare qualche esercizio pratico. Prima di tutto il modo di stare davanti alla fresatrice, tutte le posizioni necessarie per impostare il lavoro, per avviare la forza motrice e seguire le varie fasi della lavorazione dei pezzi. Il caporeparto mise in moto la macchina e poi la fermò e volle che ciascuno di noi nuovi ripetessimo i suoi gesti senza doverci inventare niente. Tutto andò bene. Un quarto d’ora prima che finisse il nostro primo turno di lavoro ci mandarono all’ufficio del personale per ritirare il nostro cartellino indicandoci dove custodirlo e come servircene; poi ci mandarono allo spaccio interno per ritirare i nostri indumenti da lavoro. Uscii dalla fabbrica con il mio pacchetto sotto il braccio. Decisi di prendere il treno delle 19:00, meno affollato di gente delle fabbriche. Cosi arrivai a casa che era già notte.
La prima nottata fu brevissima perché il mio sonno venne spezzato due o tre volte da una sensazione d’ansia per la giornata di lavoro che mi aspettava. Avevo un senso gelido d’attesa che mi faceva pensare lucidamente alle cose che stavano per succedere: all’ingresso in fabbrica, il mettersi assieme a tante altre anime a lavorare, al viaggiare, ecc. Queste cose nel giro di un momento mi apparsero inevitabili e sicure come per una predestinazione o come se dovessi ripeterle dopo che erano già avvenute nella mia vita. Il senso di gelido di quegli attimi interminabili di risveglio lo sentivo anche per tutto il corpo e mi spingeva a tirarmi le coperte addosso e a godere del tepore del letto. E mi addormentavo sicuro sulle prove del giorno dopo, che avrebbero seguito di un passo il mio risveglio, senz’altra attesa e confusione. Entrai nella fabbrica limpido e cristallino come un pezzo di vetro.
La mattina seguente mi cambiai in un attimo e, vestito con il camice da lavoro raggiunsi il mio reparto. Davanti al signor Rossi, così si chiamava il caporeparto, mi sentivo tenero e ben disposto come un bambino. Per i primi quindici giorni non ebbi una macchina tutta mia e come gli altri nuovi lavoravo a intervalli su macchine diverse. Questo mi teneva in agitazione perché sentivo che qualcosa mancava alla mia nuova vita: mi pareva quasi di non poter regolare le mie forze, di non avere un punto fermo. In queste condizioni il lavoro mi angustiava e mi stimolava a un grande accanimento: prima avrei imparato prima sarei stato più tranquillo sul posto di lavoro. Mi sentivo stanco soltanto la sera quando salivo sul treno. In quel momento la stanchezza mi cadeva addosso e il chiasso degli operai non faceva che accrescerla. All’interno della fabbrica non avevo mai visto esplosioni di gioia come quelle che avvenivano non appena gli operai appoggiavano le scarpe sui gradini del treno. Lì, se parlavano della fabbrica, lo facevano come gente che, finalmente liberatasi, non avrebbe dovuto farci più ritorno; compresi quelli che vi lavoravano da più di vent’anni. Parlavano con impeto, quasi con violenza, e si disponevano al viaggio, eccitandosi, come a una sbornia paesana.
“Si lavora per un padrone!”
Questa affermazione che risuonava immancabilmente prima di scendere dal treno chiudeva qualsiasi discorso. Osservavo però che questa giustificazione non tranquillizzava del tutto mai nessuno, nemmeno quelli che la dicevano con tanta veemenza. Il giorno in cui cominciai a lavorare da solo alla fresatrice, più del “padrone”, odiavo tutti i compagni. Speravo che le loro macchine si inceppassero e tagliassero malamente i pezzi. Questo odio faceva lavorare e mi dava l’ambizione di riuscire a fare meglio degli altri. Prendevo il pezzo dalla cassetta come fosse un nemico e lo riponevo finito che ormai gli ero affezionato come a una parte di me stesso. Il rumore della fresatrice mi attraeva e più la sentivo mordere più mi infervoravo nel lavoro. Il suo rumore e i suoi tagli mi convincevano aspramente di saper lavorare. Quelle sensazioni davano alle mie mani una forza che non avevo mai avuto, anche se mi ero accorto che più che guidarla erano trascinate dalla macchina. Il signor Rossi si avvicinava spesso alla mia postazione. Un giorno mi guardò per qualche secondo e poi, passandomi una mano sulla spalla, mi disse: “Vai calmo. Non prendere il lavoro come un nemico o non durerai a lungo. E non farne nemmeno l’unica ragione della tua vita.” Siccome la sua benevolenza andava oltre la sua confidenza, per non sentirmi troppo in debito, gli risposi con la famosa frase: – Si lavora per un padrone! –
– Per più di uno, – rispose Rossi – ma siccome il lavoro è per forza una parte della vita, cerca di non rovinartela. –
E se ne andò, senza guardare nella cassetta dei pezzi finiti.