DeGenerazione – memorie di un assassino
di
Marco Fosca ed Emilio Mantova
XVI
Le Brigate Rosse
Le notizie dall’esterno erano sempre più sconvolgenti. Le famose brigate rosse si erano date da fare. Le posizioni di molti di coloro che avevano rifiutato la lotta armata cominciano a mutare con la strage di Piazza Fontana, avvenuta il 12 dicembre dello stesso 1969. Nel settembre 1970 si tiene il Convegno di Pecorile, con il quale ha fine l’esperienza di Sinistra Proletaria: alcuni, tra cui Curcio, Cagol, Alberto Franceschini, decidono di passare alla lotta armata. Il 17 settembre 1970 si ha la prima azione politico-militare firmata “Brigate Rosse”: viene incendiata l’automobile di un dirigente della SIT Siemens, Giuseppe Leoni nel quartiere Lorenteggio di Milano. Sui volantini distribuiti si legge che quello era l’esempio da dare ai crumiri ed ai “dirigenti-bastardi”. SIT Siemens, Pirelli, Alfa Romeo: queste sono le prime industrie ove si insedia il partito armato. Tra le azioni rivendicate dalle BR in quel periodo, l’omicidio di Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, militanti del MSI il 17 giugno 1974, uccisi nella sede del MSI in via Zabarella a Padova. Curcio, condannato come mandante di quegli omicidi, scrisse il volantino di rivendicazione insieme agli altri dirigenti delle BR non senza titubanza, specificando come l’evento non fosse stato pianificato dall’organizzazione. “Bisognava anche sapere che, se necessario, le BR uccidevano”. Risulta però chiaro che susseguentemente al duplice omicidio, Curcio ed il direttorio BR agiscono con il fine di professionalizzare la preparazione militare dei brigatisti. Infatti, attraverso il dottor Enrico Levati e l’avvocato Giovanbattista Lazagna, giungono in contatto con Silvano Girotto detto “Frate Mitra” che, d’accordo con i carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa cercava il contatto con le BR e queste, affascinate dalla sua fama di frate guerrigliero gli propongono di divenire loro addestratore militare. Silvano Girotto, più noto con il soprannome di Frate Mitra. Figlio di un maresciallo dei Carabinieri spinto da curiosità e sete di avventura si recò poco più che adolescente in Francia, passando clandestinamente il confine. Fermato dai gendarmi del vicino paese e rischiando l’arresto per immigrazione clandestina accettò, mentendo sull’età, di arruolarsi nella Legione straniera, venendo inviato in Algeria dove l’esercito francese era impegnato in una guerra sanguinosa contro il Fronte di Liberazione Nazionale. Dopo soli tre mesi Girotto disertò per ripugnanza, a suo dire, verso la pratica corrente della tortura nei confronti dei combattenti algerini catturati. Al rientro in Italia venne coinvolto in un furto in una tabaccheria con una banda giovanile e, quantunque il suo fosse stato un ruolo marginale, finì con i coetanei adolescenti nelle carceri torinesi, dove maturò la scelta religiosa e successivamente entrò nell’Ordine francescano indossando il saio il 10 ottobre 1963 e assumendo il nome di Padre Leone (uno dei più fedeli compagni di San Francesco). L’attività pastorale, svolta tra giovani estremamente politicizzati e la sua vicinanza agli operai in una zona come quella di Omegna, caratterizzata da una forte presenza del Partito Comunista, gli fecero guadagnare la fama di “prete rosso”, a causa della quale gli fu poi tolta l’autorizzazione a predicare dal vescovo di Novara Placido Maria Cambiaghi. Nel 1969 contribuì a sedare la rivolta nelle Carceri Nuove di Torino facendo il mediatore, quindi chiese ai suoi superiori di essere inviato come missionario nel Terzo Mondo. Missionario in Bolivia, uno dei paesi più poveri dell’America latina, il 21 agosto 1971 nella capitale La Paz, durante un sanguinoso colpo di stato militare contro il regime progressista di Juan José Torres, si schierò con i contadini, operai e studenti che tentavano di reagire. Forze popolari, nel tentativo di resistere al golpe, espugnarono un deposito militare e con le armi così ottenute ingaggiarono feroci combattimenti che si conclusero con la vittoria dell’esercito dopo l’intervento risolutivo del reggimento blindato “Tarapacà”, unitosi anch’esso ai golpisti. Gli scontri lasciarono sul campo centinaia di morti e feriti, tra cui lo stesso Girotto che scelse la clandestinità entrando nelle file dell’opposizione armata al dittatore colonnello Hugo Banzer Suarez. La guerriglia boliviana aveva basi logistiche a Santiago, capitale del Cile, dove Girotto, assunto il nome di battaglia “David” si trovava casualmente quando si produsse il golpe di Pinochet. Anche in quell’occasione partecipò ai tentativi di resistenza popolare, venendo nuovamente ferito dai militari. A seguito della ferita si rifugiò nell’ambasciata italiana, venendo rimpatriato a fine novembre 1973 assieme ad un gran numero di profughi politici cileni che come lui avevano cercato rifugio nella sede diplomatica. Durante la sua latitanza armata in Sudamerica venne espulso dall’Ordine francescano nello stesso anno, tramite un decreto emesso dalla curia provinciale dell’ordine dei frati minori di Torino, in cui fu espressamente citata la sua partecipazione alla lotta armata. Per questo motivo e per la sua militanza nella guerriglia sudamericana all’inizio degli anni settanta venne soprannominato nelle cronache giornalistiche di quegli anni “Frate Mitra”. La collaborazione di Girotto con l’Arma dei Carabinieri, come da lui stesso affermato, fu il frutto di una sofferta decisione maturata sotto il peso determinante dei precipitosi e pesanti eventi di quei giorni, a partire dal duplice omicidio a sangue freddo di due militanti del MSI e dal rapimento del magistrato Mario Sossi. Girotto, rientrato da poco in Italia dal Cile, dove aveva direttamente assistito al colpo di stato del generale Pinochet rimanendo egli stesso ferito dai militari, e anche in funzione della propria diretta esperienza nei movimenti guerriglieri nel continente latino americano, si sarebbe reso conto dell’inefficacia e negatività dell’iniziativa delle Brigate Rosse nel contesto italiano. L’ex religioso avrebbe ritenuto l’azione terroristica dell’organizzazione un tragico errore, capace esclusivamente di generare lutti inutili e condurre alla rovina molti giovani idealisti di sinistra, oltre che rischiare di scatenare e giustificare tentativi golpisti. Tale tesi, pubblicamente sostenuta in ogni occasione dallo stesso Girotto, è ribadita in un’intervista del 1975:
«…non è stato facile per me agire in quel modo. Ho dovuto superare la ripugnanza istintiva ma irrazionale verso comportamenti che a tratti mi apparivano come disonesti ma ho superato le titubanze riflettendo con sensibilità cristiana e sacerdotale che mi fanno vedere con chiarezza assoluta l’iniziativa della lotta armata nel contesto italiano attuale come un’avventura tragica e senza sbocchi. Io non sono concettualmente contrario alla lotta armata ma lo sono quando essa non è necessaria. La mia avversione alla lotta armata è qui, in Italia… non c’è stato alcun cambiamento di linea politica da parte mia, ancora oggi se tornassi in America latina riprenderei il mitra perché so che purtroppo laggiù non esiste alternativa ma è desolante vedere che anche nel mio paese si vuol arrivare a quel tipo di situazione quando invece è ancora evitabile.»
Un articolo del Senatore MSI Giorgio Pisanò pubblicato sul settimanale Candido, diretto dallo stesso Pisanò presentava Girotto come un religioso comunista a conoscenza dei segreti delle Brigate Rosse, quindi in grado di fornire un contributo utile alla salvezza del magistrato Mario Sossi, i quei giorni ostaggio dei brigatisti. Lo stesso articolo, secondo quanto sostenuto dallo stesso Girotto, avrebbe spinto i Carabinieri del nucleo antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a ricercare un contatto con Frate Mitra. L’ufficiale incaricato di contattare Girotto fu l’allora Capitano Gustavo Pignero che, prendendo atto della sua avversione per l’iniziativa brigatista, gli propose di collaborare. Girotto chiese alcuni giorni per riflettere e infine accettò. Dopo alcuni approfondimenti avvenuti negli ambienti dell’estrema sinistra piemontese, il contatto fra Girotto e l’area di consenso delle Brigate Rosse avvenne prima attraverso il dottor Enrico Levati e, successivamente, secondo la versione di Girotto, a seguito di un colloquio diretto con l’avvocato Giambattista Lazagna, ex capo partigiano animato dal mito della resistenza tradita, considerato molto vicino agli ambienti del terrorismo politico di queqli anni, accuse poi cadute nel corso dei processi che gli furono intentati. Ciò che favorì il contatto fra i capi brigatisti e Girotto fu la sua fama di rivoluzionario addestrato e formatosi nelle tragiche condizioni della guerriglia sudamericana, fama enfatizzata dai giornalisti italiani dell’epoca. Il primo incontro vero e proprio fra Girotto e i brigatisti avvenne nella città di Pinerolo, dove si presentò Renato Curcio, capo e fondatore dell’organizzazione, che sondò le intenzioni di Girotto, giudicandole genuine. Qualche settimana dopo ebbe luogo un secondo incontro in una trattoria con la presenza di Mario Moretti. In quell’occasione fu proposto a Girotto l’ingresso nelle file brigatiste allo scopo di addestrare i militanti alla guerriglia urbana. L’arruolamento vero e proprio avrebbe dovuto concretizzarsi nel terzo incontro, fissato per l’8 settembre sempre a Pinerolo, ma in quell’occasione Girotto si presentò assieme ai Carabinieri che, come espressamente richiesto dallo stesso, avevano seguito e documentato fotograficamente tutti i movimenti precedenti. Furono così arrestati Renato Curcio e Alberto Franceschini, entrambi capi e fondatori delle BR.
Nel pomeriggio del 18 febbraio 1975 Renato Curcio viene fatto evadere dal carcere di Casale Monferrato, dove era detenuto da circa tre mesi. Franceschini era stato poi portato al carcere di Cuneo, da dove aveva cercato di fuggire due mesi dopo, aiutato dai compagni all’esterno; Curcio, invece, era stato trasferito prima a Novara e poi a Casale Monferrato, struttura con pochi reclusi dove si pensava sarebbe stato più facile tenerlo d’occhio. Per più di due mesi i brigatisti avevano studiato il piano per l’evasione: l’esterno e l’interno del carcere, la posizione dei fili del telefono e soprattutto vie e stradine per fuggire dopo l’azione, e raggiungere, evitando i posti di blocco, la Liguria. Alcuni giorni prima della liberazione di Curcio avevano inoltre rubato una decina di macchine poiché nella strada in cui avevano deciso di fuggire era presente un passaggio a livello che sarebbe stato chiuso al momento dell’evasione, ed era quindi necessario attraversare i binari a piedi e salire su altre macchine. Nella riunione preliminare all’azione alcuni brigatisti, tra cui Mario Moretti, si erano dichiarati contrari, sostenendo che l’attacco avrebbe avviato una guerra tra apparati, tra Stato e BR, guerra che non aveva un referente sociale. La maggioranza, che alla fine avrebbe prevalso, affermava invece che il riferimento era la classe operaia, poiché la vera funzione del carcere è di dissuadere chi i reati non li ha ancora commessi, e l’obiettivo, con un’azione del genere, era di smontare questa deterrenza.
L’azione avviene nel pomeriggio di martedì, giorno di visita all’interno del carcere; il giorno prima i brigatisti avevano avvertito Curcio del loro arrivo con un telegramma che diceva “sta arrivando il pacco”. Alle 16,15 circa, due auto, secondo le testimonianze riportate il giorno dopo su “La Stampa”, si fermano vicino al carcere in via Leardi. Scendono un uomo e una donna, poi identificata in Margherita Cagol. La donna suona al campanello annunciando di dover consegnare un pacco. Quando l’agente di custodia apre la porta si trova un mitra puntato allo stomaco. Subito dopo arrivano altri tre uomini, con una scala, che tagliano i fili del telefono a tre metri di altezza. La guardia viene costretta a chiamare il maresciallo dal quale si fanno aprire tutte le porte fino alla cella di Curcio. Direttore e agenti di custodia vengono poi chiusi a chiave in una cella, le chiavi vengono buttate sul marciapiede di fronte al carcere. I brigatisti se ne vanno, lasciando il pacco all’interno del penitenziario. I poliziotti aspetteranno poi gli artificieri per aprirlo e lo troveranno pieno di carta straccia. Il Ministero dell’Interno aprirà un’indagine per accertare le responsabilità. La risposta dello Stato sarà l’istituzione di carceri speciali e di massima sicurezza per i detenuti politici e la promulgazione della cosiddetta Legge Reale. Per i brigatisti invece si porrà il problema del rifinanziamento. Il 4 giugno verrà rapito, per questo motivo, l’industriale Gancia a Canelli in provincia di Asti. Il giorno successivo una pattuglia di Carabinieri tenterà di entrare nella cascina apparentemente abbandonata, in cui si trovava l’ostaggio. Nel conflitto a fuoco che ne seguirà verrà prima ferita poi uccisa Margherita Cagol.
Tutti questi eventi avevano messo in subbuglio l’Italia intera. Ma io avevo altri pensieri per la testa.
Dovevo fuggire e riallacciarmi alla K.K.
Si parlerà anche di me…