DeGenerazione – memorie di un assassino
di
Marco Fosca ed Emilio Mantova
XI
Il fiore di metallo
Dopo essermi congedato dal signor Refice, ripresi la strada verso il bar dove avevo incontrato quel vecchio che aveva vissuto a Londra. Probabilmente non gli sarebbe stato difficile tradurre quelle poche pagine perché erano scritte proprio in lingua Inglese. La curiosità che avevo sul contenuto di quei documenti era forte ma, soprattutto, pensavo a quel grammofono che mi aveva riportato alla mente l’ultima volta che avevo visto mio padre da uomo libero. Un ricordo di circa trent’anni prima…
Mi sveglio nel cuore della notte. Qualcosa mi impedisce di dormire. C’è un gran rumore in tutta la casa. La mia stanza è illuminata dalla lampada, il letto della mamma è vuoto. Neppure la nonna c’è. Grido: “Nonna! Nonna!” Ho paura. Sto per scoppiare a piangere. All’improvviso entra la nonna e dice: “Alzati! È tornato tuo padre.” I pantaloni, la camicia bianca, le calze e le scarpe si levano in volo e ricadono su di me con la velocità di un rondone in picchiata. La nonna mi prende per mano e mi conduce nella sala da pranzo. La sala è piena di gente. Alzo gli occhi e vedo mio padre in un vestito tutto consumato e con i capelli lunghi e la barba incolta. Quello che poi mi è rimasto impresso nella memoria è il fatto che mi guardò con occhi freddi e austeri e non si mosse, non un gesto nei miei confronti.
Lo zio mi prende per il braccio. “Avvicinati, avvicinati.” È me che chiama, e dice, senza riuscire ad arginare il sorriso che inonda le sue rughe: “Ricordi ancora la poesia che ti ho insegnato?”
La mia vocetta di zanzara scende nella sala da pranzo. Tutti sono in silenzio. Recito la poesia. Ho finito. Lo zio rompe il silenzio e si volta con orgoglio verso mio padre: “E allora, come l’ho istruito, eh? Tuo figlio recita già poesie!”
Mio padre si china, mi fa volteggiare fino alle sue braccia e chiede, fra il tenero e l’ironico: “Reciti solo i versi o li capisci anche?”
Senza staccarmi dal suo sguardo freddo e curioso, rispondo con le sole labbra: “Li capisco.”
“E come fai a capirli?”
“Me li ha spiegati lo zio.”
Mio padre mi fa salire sulla sua valigia, o meglio, una cassa di legno sgangherata. Da qui vedo tutto. La gente presente nella sala da pranzo è stanca di tacere. Ondeggiano ombre sui muri. Una voce roca abbastanza volgare emette un grido. Tutta la situazione in verità ha un aspetto barbaro. Dalla valigia vedo questa massa di gente che si pigia nella nostra dimora. Dal buio della notte ne emergono altri ancora. Terminando di vestirsi giungono i vicini ancora insonnoliti ma già esaltati ed emozionati. Con le braccia stanche incrociate sulle camicie imbrattate di argilla stanno i rematori che hanno portato mio padre lungo il grande fiume. I rematori dai piedi massicci e dalle grandi mani brusiscono con voci rattenute. Perfino la “guardia notturna” (cosi era chiamato), che protegge il sonno dei cinquemila abitanti del piccolo paese, occhieggia nella stanza. Quasi travolto dalla folla che nel frattempo si è radunata a casa, che guarda, indica e gli respira in faccia, mio padre fa mezzo passo e dice: “La mia sala purtroppo è piccola e non posso accogliervi tutti. Ma mi permetterò di offrire un piccolo spettacolo.” Si china verso la valigia, fa frusciare la carta, sbatte il cartone dalle scatole e tira fuori una diavoleria a forma di cassetta dalle lucide cromature. Sotto il gigantesco fiore di metallo corre una ruota nera lucida, e la tromba investe i presenti con i rauchi e tremolanti motivi di una canzone dalle note bellicose. “Questo è un omaggio dei fasci. Li abbiamo colti di sorpresa e sterminati mentre ascoltavano questa canzone” lo disse cambiando repentinamente espressione verso la fine della frase.
Scatto della folla verso la porta. A qualcuno pestano addirittura i piedi. Ma quando mio padre finisce di parlare, si odono sonore risate. I vicini circondano il grammofono mentre mio padre gira la manovella che fa ruotare il disco lucido; le loro dita curiose si ficcano nella tromba, sulle cromature, sul disco che gira, passano perfino sulla punta dell’ago, per cui la tromba comincia ad emettere un suono simile a una tosse rauca. Le file posteriori composte dagli anziani del paese scrutano in sincrono la testina, disapprovando quella diavoleria moderna. Alcuni di loro si chiedono se c’è qualcuno all’interno della scatola d’oro cromata, magari un nano. Mio padre alza la mano come un profeta depositario di verità assolute e calma la gente: “All’interno della cassetta non c’è nessuno, mi è difficile spiegare in poche parole il funzionamento di questa macchina, ma prometto di raccontarlo in maniera particolareggiata non appena il momento sarà più adatto.”
Il rumore e il fruscio di passi, lo schiamazzo di molte voci non si quietano finché l’alba grigiastra non ritaglia un quadrato nella porta della sala. Il sonno rende le mie palpebre stanche e faccio una difficoltà enorme a tenerle schiuse. La gente mi cammina innanzi con un informe rombo metallico. Riesco a sentire la voce dello zio più giovane provenire da sopra la mia testa: “Il bambino deve dormire.”
Afferro la mano della nonna e cammino, con i piedi che inciampano l’uno nell’altro. Però, quanto c’è di più pesante nella cassa mio padre è riuscito a non farlo vedere ai vicini, per non spaventarli, penso. Nere bombe a mano e fucili.
Che personaggio era mio padre!
Dopo aver studiato all’accademia militare, era entrato a far parte della polizia. All’inizio era molto orgoglioso del suo incarico. Neanche un anno di servizio e qualcosa in lui si era rotto. Forse non condivideva i metodi e i pensieri del regime, fatto sta che si era unito a una società segreta rivoluzionaria, che poi prese un ruolo attivo e determinante nella successiva lotta partigiana.
Tutto questo inizialmente senza però abbandonare la sua posizione nell’arma. I vertici di quella società segreta, infatti, avevano ordinato ai loro membri di infiltrarsi in tutte le fessure della macchina governativa e questo era stato molto facile per mio padre, in quanto già ne faceva parte. Contemporaneamente gli era stato assegnato il compito di organizzare una “scuola clandestina”, per addestrare gli uomini che dovevano entrare a far parte della lotta armata. Quando informò la nostra famiglia delle sue intenzioni, lo zio andò su tutte le furie. Lo ricordo come fosse successo ieri. “Sei impazzito! Che ne sarà della tua famiglia? Chi baderà a loro? Tua moglie si sfianca come una serva e tu te ne vai?”
Mentre lo zio continuava, mio padre, immobile, calmo, seguiva con gli occhi il fratello maggiore che fremeva di rabbia.
“Perché stai zitto? Voglio essere chiaro e parlarti francamente, ho l’obbligo morale di dirti queste cose per Dio!”
“Lascia stare! Ormai la decisione è presa! – rispose mio padre senza scomporsi – Voglio che tu sappia che non è egoismo personale ma è per il bene di questo paese, per i nostri figli, per i figli dei nostri figli e per quelli che verranno dopo di loro.”
Sdegnato lo zio corse verso la porta, dietro la quale c’era mia madre che era già impegnata a sistemare le poche cose di mio padre nella sua valigia. Conosceva bene il marito e sapeva che qualsiasi cosa avesse detto ho fatto non sarebbe servita a fargli cambiare idea.
Alcuni mesi dopo, in un’azione d’assalto, un compagno di mio padre, col quale c’era l’accordo di agire lo stesso giorno e alla stessa ora, ma in distretti diversi, mandò a monte il piano. Si mosse due giorni prima della scadenza fissata, uccise il capo fascio del distretto, e l’indomani stesso inviò reparti ad aiutare mio padre. Ma tra i reparti corse la notizia dell’attacco al distretto da liberare. Il gruppo di mio padre non era ancora pronto per l’attacco. Il capo fascio del distretto che doveva attaccare mio padre ordinò subito truppe di rinforzo per contrastare l’imminente offensiva partigiana che ovviamente era all’oscuro di questo invio massiccio di uomini al distretto. Non sapendo quanto successo mio padre con i suoi compagni, attaccò il distretto. Una carneficina.
Chi non fu ucciso fu catturato. Per mio padre e i suoi pochi compagni sopravvissuti si spalancarono le porte della prigione. Il reparto di compagni inviato nel frattempo passò all’offensiva, attaccando il distretto in cui mio padre era prigioniero con tutta la sua potenza di fuoco. Ma il capo fascio del distretto era un individuo molto scaltro. Cosciente del fatto che con le sue truppe non ce l’avrebbe fatta a contenere un altro attacco partigiano, diede inizialmente il benvenuto ai compagni che entrarono nella città.
Capo fascio: “Io sono per la rivoluzione… – strisciando ripetuti inchini e sorridendo mellifluo – permettetemi di consegnarvi la mia guarnigione, affinché, insieme alle vostre truppe, possiate condurre con successo la vostra avanzata.”
“Dove sono gli altri compagni?” gli fu chiesto.
“Sono ripartiti dopo essersi riposati, gli abbiamo anche fornito libagioni per il lungo viaggio.”
I compagni commisero l’errore di credere alle belle parole del capo fascio. Dopo un lauto banchetto e dopo innumerevoli caraffe di vino, si sistemarono per la notte, ormai sbronzi e stanchi per le fatiche della giornata. Quella stessa notte, dopo la mezzanotte, il capo fascio con i suoi uomini irruppe nelle loro camere da letto, sgozzandoli tutti nel sonno. Lo zio venne da me tutto sconvolto. “Tuo padre vuole vederti!”
Mio padre era un uomo in vista presso le fila partigiane, per cui gli fu concesso l’onore delle armi sottoforma di richiesta di ultimo desiderio. E quindi, prima dell’imminente esecuzione della condanna a morte, volle vedere me come ultima persona di questa maledetta terra.
Se non mi avesse rivolto la parola, non so come avrei fatto a riconoscerlo così malridotto. Per la prima volta, scorgendomi, si rischiarò con un sorriso. Sembrava che il suo sguardo austero avesse abbandonato i suoi occhi neri come la pece. Mi mise una mano sulla spalla e disse: “Adesso non bisogna piangere. Questo è il momento di essere forti. Cerca di vivere la vita da uomo libero e morirai una volta sola. Come tuo padre. Anche se le mie parole ti sembrano senza senso, con il passare del tempo, darai loro il giusto senso. Sii forte! Un’ultima cosa: quando la vittoria sarà nostra devi fare una cosa per me.”
“Dimmi padre.”
“Ti ricordi il grammofono? Il fiore di metallo che canta? Devi prenderlo e far suonare Bella Ciao e tutte le volte che lo farai, io ti guarderò e ti proteggerò dall’alto di cieli.”
“Sì padre!”
Da quell’istante solamente un alito di vento sollevato dal suo rapido passaggio restò di materiale sulla pelle del mio volto.
L’esecuzione ebbe luogo un sabato. La folla delle camice nere scortò il manipolo di uomini da giustiziare. Tra loro c’era mio padre, con le mani legate dietro la schiena. La piazza del paese era il luogo prescelto per eseguire la sentenza di morte. Tutt’intorno vi pullulava sommessamente la massa vischiosa e dilagante delle teste nere degli spettatori, un triplice anello che guardava al di sopra delle spalle e dei fucili del cordone delle camice nere. Giunse un drappello di soldati. Il rumore bronzeo di quattro trombettieri sfondò le mie orecchie. Al ritmo dei tristi segnali avanzarono soldati in avanguardia con i fucili a tracolla. Li seguivano, a passi lenti, i partigiani da giustiziare. Davanti a tutti spiccava mio padre con il suo portamento fiero. Alcuni procedevano curvi, altri alzavano le facce sorridenti, altri ancora fissavano il pubblico torvi come lupi. Ve n’erano anche di quelli che la morte imminente aveva già trasformato in mezzi cadaveri. Non erano più in grado di camminare, le camice nere li trascinavano tenendoli per le ascelle, e la strada fumava lievemente sotto i loro piedi striscianti. Il corteo era lungo. Gli spettatori tacevano. Contai quelli che passavano. In tutto erano quarantanove. Dovevano essere cinquanta ma uno, si mormorava, era morto di paura in prigione. Alle spalle dell’ultimo compagno partigiano sfilava il plotone d’esecuzione.
Avevo paura. Afferrai la stoffa della gonna di mia madre. Non volevo guardare, barcollavo, mi girava la testa ma, nel contempo, mi vergognavo di mostrarmi in quelle condizioni. Mia madre mi afferrò forte per il braccio e mi disse: “Devi guardare! Devi essere orgoglioso di tuo padre!”
I partigiani vennero allineati spalla a spalla lungo il muro che circondava il lato nord della piazza. Di fronte a loro stavano i boia fascisti con i fucili puntati. Erano schierati su due file. Quelli in ginocchio e quelli in piedi. Tutto tacque quando ad un certo punto una voce: “Caricare… Puntare… Fuoco!”
Un attimo dopo la detonazione delle armi, tutti finirono a terra. Il fumo e la polvere dello spiazzo sudicio si alzarono a spirale sotto la botta delle pallottole. L’ispettore, l’ufficiale e un poliziotto fecero il giro dei mucchi giacenti di carne morta e di stracci per accertare la morte. I soldati alzarono ogni testa e cercarono i fori delle pallottole. Tutti erano morti sul colpo. Il trombettiere suonò un segnale. I soldati meccanicamente riformarono i ranghi e si allontanarono. Al posto dei soldati si avvicinarono i parenti degli uccisi, che piansero senza ritegno nel silenzio. Le bare che vennero trascinate verso i cadaveri, scricchiolarono con un rumore secco. A questo punto cominciò a piangere anche la mamma, non riuscendo più a trattenersi e subito lo zio la strinse in un abbraccio.
Perché la gente ammazza altra gente? Chi gliene ha dato il diritto?
A volte le domande che si pongono i bambini sono le più dirette e semplici. Quella notte non dormii. Vedevo continuamente le file di cadaveri dai volti pallidi. Con il cuore stretto dallo spavento, tirai fuori la testa di sotto la coperta e, ogni volta, in risposta al mio gesto, altre teste come la mia si sollevavano da molti letti. In piazza i soldati avevano “fucilato” il nostro placido sonno!