Il Decreto Lavoro (DL. n. 48/2023) approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 1° maggio ed entrato in vigore il 5 maggio è stato salutato dai Consulenti del Lavoro con entusiasmo. Numerose, infatti, le misure contenute nel provvedimento che la Categoria reclamava a gran voce da tempo, in termini soprattutto di semplificazione e alleggerimento degli oneri burocratici a carico delle imprese. Con questo decreto, calato nella realtà vissuta quotidianamente da lavoratori e imprenditori – sottolineano i Consulenti – si è in grado di rispondere alle nuove esigenze del mercato del lavoro italiano e alle sfide poste da quello globale. “È un decreto fatto da tecnici che, come tale, guarda ai numeri e non alle ideologie. Il suo presupposto di fondo è che non sono le norme a dover condizionare il mercato, ma è quest’ultimo a dover indirizzare le norme: qualcosa che dovrebbe essere la normalità in uno Stato di diritto”, afferma Carlo Martufi, presidente del Consiglio provinciale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro di Frosinone e vicepresidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro.
“Un provvedimento di visione – precisa Martufi – in grado di indirizzare il mondo del lavoro verso ciò di cui oggi i principali attori economici hanno bisogno. L’Istat negli scorsi giorni ha certificato che l’occupazione continua a crescere, che il lavoro c’è. Ora bisogna passare alla fase applicativa, incrociando domanda e offerta”. Ovviamente, trattandosi di un decreto-legge, non poteva che riportare norme strettamente urgenti – sottolinea – come il superamento del Decreto Trasparenza: un intervento molto atteso dalla Categoria, perché imponeva ai datori di lavoro di fornire al lavoratore al momento dell’assunzione una “mole” di informative che di fatto rappresentavano un passo indietro rispetto alla transizione digitale in atto da tempo, con un aggravio di costi e adempimenti inutili e farraginosi. Ma anche il superamento delle stringenti causali sui contratti a termine imposte dal Decreto Dignità, che non consentivano affatto l’utilizzo di questo istituto, e la distinzione tra politiche attive e politiche passive, visto l’insuccesso determinato dal reddito di cittadinanza.
Martufi si sofferma, poi, sulle nuove causali per i rinnovi dei contratti a termine, che potranno superare i 12 mesi ma non i 24 nei casi previsti dai contratti collettivi nazionali, per “esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva” o per sostituire altri lavoratori. “C’è chi ha parlato di favoreggiamento al precariato e invocato a modello il mercato del lavoro spagnolo, dove ormai il contratto a tempo indeterminato è diventato quello standard. Un modello, però, che presenta profonde criticità”. Il Presidente sottolinea come l’Italia preveda ampie tutele per i lavoratori, ma non si può dire lo stesso per la Spagna. “Basti pensare che non esiste il concetto di ‘giusta causa’ e che, nei casi oggettivi o di licenziamento disciplinare, si può licenziare senza corrispondere al dipendente alcun tipo di indennità”. In caso di licenziamento invalido per motivo disciplinare oggettivo è riconosciuta un’indennità pari a 33 giornate di retribuzione per ogni anno lavorato, fino a un massimo di 24 mesi; nel caso di licenziamento per crisi aziendale, poi, l’indennità è pari a 20 gg/anno lavorato fino a massimo 12 mesi. “Appare evidente, dunque, come la precarietà nel mondo spagnolo non sia connaturata al contratto a tempo determinato, di cui esiste un’unica tipologia con causalità più stringente e circoscritta, bensì alla modalità con cui il lavoratore può uscire dal contratto a tempo indeterminato. Il modello italiano è certamente più garantista di quello spagnolo”.