di Stefano Di Palma
Negli appunti di Henri Matisse (1869-1954) la genesi di quest’opera del 1910 è così riassunta: “La danza è concepita immediatamente come unità di ritmo. In questa composizione il mio primo e principale elemento costruttivo era il ritmo, il secondo una grande superficie di un azzurro intenso (allusione al cielo del Mediterraneo nel mese di agosto), il terzo una collina verde (il verde dei pini mediterranei, appoggiati all’azzurro del cielo). Con questi dati, i personaggi nudi potevano essere soltanto vermiglio per ottenere un accordo luminoso”.
La tela fu commissionata nel marzo del 1909 assieme alla Musica, anch’essa entrata all’Ermitage di San Pietroburgo nel 1948; una terza tela, mai eseguita, doveva completare quello che Matisse aveva concepito come un trittico sulle tre età dell’uomo; esposte al Salon d’Automne di Parigi del 1910, le due opere suscitarono perplessità, soprattutto in relazione alla loro violenza cromatica.
Tale aspetto era già stato associato al pittore che un tempo faceva parte del gruppo dei Fauves, ossia le Bestie feroci, secondo la definizione coniata dal critico Vauxcelles che definì “gabbia delle belve” la sala in cui erano esposte delle tele di un gruppo di giovani artisti nel 1905, alludendo alla loro aggressività cromatica e violenza espressiva. L’appellativo assegnò il nome al movimento sorto dall’incontro fra Matisse e altri artisti tra i quali Marquet, Vlaminck e Derain. Se pur di breve durata, l’esperienza Fauves è stata fondamentale nella evoluzione della pittura contemporanea, perché rappresenta una delle reazioni di superamento della pittura del tardo Ottocento; si tratta di una esperienza artistica che guarda all’arte primitiva, rifiuta le leggi prospettiche e dunque antiaccademica per bagnarsi di sensazioni rapide, violente o per dirla come Matisse, di choc, volti all’esaltazione del “puro colore”.
Nel corso della sua carriera artistica Matisse si confrontò diverse volte con il tema della danza. In quest’opera del 1910 sembra che il pittore abbia preso spunto dai ballerini del Moulin de la Galette, un locale alla moda di Montmatre; egli riuscì a depurare quelle movenze dai possibili riferimenti alla realtà, mantenendo solo l’idea del movimento e proiettando i corpi nudi in uno spazio piatto e irreale. Danzando tra il cielo e la terra i ballerini acquistano una dimensione primordiale, che allude alla vitalità e all’istinto. Nonostante il colore rimanga quello violento e contrastante dei Fauves, qui Matisse allarga le campiture e restringe la gamma cromatica; in tal modo le figure acquistano una nuova monumentalità, spoglie e sfrenate come idoli pagani (cfr. I GRANDI MUSEI DEL MONDO, 6, 2006).
L’opera rappresenta uno dei vertici di quella gioia di vivere che sarà sempre il segno distintivo dell’artista; l’amore per la vita passa soprattutto attraverso il colore, al quale viene sacrificata anche la forma che, intorno agli anni Cinquanta, nella produzione di Matisse si dissolverà nell’astrattismo.
Il pittore utilizza un suo linguaggio personale ed è come se colorasse con l’istinto, vedendo la realtà con gli occhi del sentimento, infatti il colore si carica di una emozione ricercata in altra dimensione, in quanto è sentito e non visto.
Nei tempi storici così violenti che ci troviamo a vivere, l’amore per la vita e la positiva centralità dell’uomo in comunicazione con sé stesso e con l’universo espressi da Matisse, ci richiamano a più alti valori definendo una visione dell’uomo fuori dagli orrori di cui spesso è compartecipe. Si tratta di una sorta di ritorno alle origini carico di aspirazioni, ben espresso da Argan che trova nel quadro un significato mitico – cosmico descrivendolo così: “Il suolo è l’orizzonte terrestre, la curva del mondo; il cielo ha la profondità turchina degli spazi interstellari; le figure danzano giganti tra la terra e il firmamento.