di Anna Maria Scampone
Fumo, appoggiato a un lampione, innervosito dal gironzolare improduttivo del mio cane. Cerca, come al solito, un posto idoneo per depositare le sacre deiezioni. Tutte le sere la stessa storia. Corre in tondo fiutando ogni angolo, fruga tra i cespugli, raspa la terra polverosa delle aiuole, poi si accovaccia e, finalmente, elargisce il suo grosso e grasso contributo. Lo annusa soddisfatto, poi trotterella via. Io sono il coglione che deve raccoglierlo.
Il mio cane è uno spinone italiano, enorme e con il pelo arruffato. Si chiama Babba, diminutivo di Barabba. Mia moglie ha voluto dargli il nome di quel briccone che la folla preferì a Gesù, poiché, appena portato a casa dal canile, il cagnaccio ebbe l’infelice idea di rubare le salsicce proprio sotto al suo naso. Non glielo ha mai perdonato.
Il diminutivo è dovuto alla mia piccola Viola, un frugoletto di appena tre anni che sa già il fatto suo. Viola e Babba sono inseparabili. Tanti passi fa lei, tanti il cane. Babba si fa tiranneggiare, coccolare, strapazzare, pettinare, vestire senza nemmeno un brontolio. Insieme ne combinano di cotte e di crude, ma entrambi sanno farsi perdonare. Hanno architettato una serie di sguardi, sospiri e moine da oscar. Difficile non arrendersi. E infatti, io capitolo in pochi istanti. Forse è per questo che Babba non mi rispetta e fa il comodo suo quando usciamo. Non sono io il suo padrone. Io sono solo quello che compra le crocchette, gli dà l’acqua e pulisce quando occorre.
C’è un bel venticello stasera, un refolo leggero che invita a stare fuori casa. Passeggio lungo i viali alberati, deviando dal solito percorso. Inseguo i miei pensieri. Anche Babba. Scodinzola felice, rincorrendo le ombre. Ci addentriamo in un quartiere nuovo, curiosando tra le merci esposte in vetrina. È tempo di saldi e constato che ci sono alcune occasioni da non perdere. Ci tornerò con Virginia, mia moglie. Non ho fretta e mi siedo su una panchina, a ridosso di un piccolo parco. Tolgo il guinzaglio al cane e lo guardo mentre si rotola tra l’erba. C’è un take away poco distante e decido di concedermi un bel cartoccio di moscardini e pesciolini fritti. Uno strappo alla regola ci sta tutto e poi Virginia non lo saprà mai. Come si dice? Occhio non vede, cuore non duole.
Divido queste prelibatezze con Babba. Le apprezza. Mentre inghiotte è già lì con la zampetta che reclama un altro boccone. Insaziabile golosone. Non ci accorgiamo dei due tizi che si avvicinano se non quando sono a due passi da noi.
«Ehi tu, sei seduto sulla mia panchina» mi apostrofa uno dei due.
«In che senso la sua, mi scusi. C’è un’altra panchina là, si sieda su quella.»
Il ragazzo si avvicina minaccioso. Mi ritraggo istintivamente.
«Se ti dico che la panchina è mia, tu ti alzi e te ne vai. Hai capito?»
Babba ringhia minaccioso, il corpo irrigidito come se avesse avvistato una lepre. Digrigna i denti e fa quasi paura. Se non fosse per quella barbetta arancione che gli dà un aspetto buffo, sembrerebbe anche credibile.
«A cuccia» gli intima l’altro ragazzo. Lui sì che ha un aspetto terribile, con la cresta rossa che ondeggia alla luce del lampione e il percing sul sopracciglio destro.
Babba non gradisce l’ordine e torna a ringhiare.
«Buono» gli dico. Lui si accuccia, le orecchie pendule sugli occhi, un brontolio sordo di protesta nella gola.
«Va bene ragazzi. Finisco i fritti e vado.»
Il ragazzo con la cresta rossa mi strappa il cartoccio delle mani, lo butta per terra e lo schiaccia con gli anfibi.
«Ecco, hai finito. Smamma!»
Se c’è una cosa che non sopporto è che mi tocchino il cibo. Anche quando vado al Mac e Virginia mi ruba le patatine divento idrofobo, figurarsi se possono farlo due brutti ceffi che nemmeno conosco. Così faccio la stupidaggine di reagire. Mi alzo, lo sguardo che vorrebbe essere minaccioso. Non lo è abbastanza visto che i due gaglioffi non mostrano di avere paura. Sogghignano e io mi infurio ancora di più.
«Cosa avete da ridere, brutti stronzi.»
Uno dei ragazzi muove verso di me, mi gira intorno e, senza preavviso, mi passa un braccio intorno al collo.
«Paparino fa la voce grossa» sussurra. La sua voce ha una nota stridula e crudele che non mi piace. Cerco di divincolarmi, ma la stretta diventa una morsa a cui non posso sottrarmi. Mi sento inerme e anche stupido. Ma cosa mi è venuto in mente?
Il tipo con la cresta rossa ride mentre mi scarica una gragnuola di pugni nel ventre. Caspita, se fanno male. Il dolore si irradia lungo tutto il mio corpo. È una raffica lancinante che mi blocca il respiro. Non ho nemmeno il fiato per urlare.
Babba tenta di difendermi. È balzato su appena ha avvertito la minaccia nella voce dei miei aggressori. Dimentica per un momento di essere un cane pacifico e assale i due, a suon di morsi. Ciuffo rosso gli molla un calcio nel fianco, ma il cane torna alla carica. Ancora, ancora e ancora, L’ultima cosa che sento prima di svenire sono i suoi guaiti. Devono avergli fatto del male. Maledetti.
Mi sveglio in ospedale, intontito dagli antidolorifici. Virginia mi guarda, gli occhi lucidi. Ha pianto e, se ne avessi la forza, piangerei anche io. Sono conciato piuttosto male. Sono indolenzito e respiro a fatica. Devono avermi incrinato qualche costola.
«Alcuni testimoni hanno detto che i due bulli hanno continuato a picchiarti anche quando eri già svenuto.»
«Babba?»
«Barabba è dal veterinario, in osservazione. Lo hanno preso a calci, procurandogli dei danni piuttosto seri.»
«Si è comportato da vero eroe. Avresti dovuto vederlo, povero cane.»
«Adesso riposa. Hai bisogno di recuperare le forze.»
Chiudo gli occhi, esausto. Strano come la stanchezza possa sopraffarti all’improvviso. Mi addormento e sogno di correre in un prato verde insieme al mio cane.