FATTI AD ARTE

L’ENIGMA DI GIORGIONE – LA TEMPESTA

di Stefano Di Palma

Sulle ricerche già avviate da Bellini e da Carpaccio circa la possibilità di usare il colore come mezzo autonomo e circa il potere di evocazione lirica della luce, elementi alla base della pittura tonale veneta, si fondò l’arte di Giorgio da Castelfranco, detto Giorgione. Di questo famoso pittore sappiamo ben poco a eccezione delle date di pagamento delle opere ufficiali e dell’anno di morte avvenuta precocemente nel 1510.

Un dipinto particolarmente noto dell’artista è la Tempesta; si tratta di una delle opere più misteriose della storia dell’arte per la quale la critica ha proposto varie interpretazioni.

Protagonista assoluto dell’opera è il paesaggio, naturale in primo piano civilizzato nel secondo piano; si scorgono anche un uomo e una donna che allatta un bambino mentre in alto il bagliore di un fulmine interrompe la tranquillità dell’ambiente e lo trascolora. La tela fu commissionata a Giorgione dall’amico Gabriele Vendramin per il suo “camerino delle anticaglie” e riscosse da subito un grande successo. Marcantonio Michiel, che ebbe modo di vederla in questa ubicazione, la definì nel 1530 “el paeseto in tela cun la tempesta cun la cingana et soldato, fu de man de Zorzi di Castelfranco”.

Ma chi sono davvero costoro? Alcune interpretazioni privilegiano significati di natura simbolica e allegorica, come “l’eredità del dolore” che colpisce una famiglia umana oppure Fortezza e Carità dominate dalla Fortuna; altre letture vedono qui rappresentate storie desunte variamente dalla mitologia, dalla Bibbia o da fonti letterarie come ad esempio la nascita di Bacco Mercurio e Iside, il ritrovamento di Mosè oppure Deucalione e Pirra dopo il diluvio (dalle Metamorfosi di Ovidio).

Tra le ipotesi di stampo biblico spicca quella che intende la scena come il destino dell’uomo dopo il peccato originale e la condanna dell’Onnipotente; in quest’ultima lettura, la donna seduta sull’erba sarebbe dunque Eva che allatta Caino, mentre comparirebbe Adamo appoggiato ad un bastone. L’Eterno è poi simboleggiato dal fulmine che squarcia le nubi ed evidenzia la città e il paesaggio, le colonne spezzate alluderebbero al destino dell’uomo e il ponte, che la minaccia del fulmine rende impraticabile, collegherebbe lo spazio occupato dai progenitori alla città remota sullo sfondo: il Paradiso perduto, la Gerusalemme celeste. (P. DE VECCHI – E. CERCHIARI, 1991).

La molteplicità delle interpretazioni che in molti casi trovano appoggio su solidi riferimenti culturali, ma sono tutt’altro che univoche, confermano l’ancoraggio dell’opera ad un particolare ambiente culturale veneziano degli inizi del Cinquecento, proiettato verso la produzione di immagini comprensibili ad una stretta cerchia. Anche ciò determina il carattere ambiguo dell’iconografia del dipinto.

In tutti i casi, come è stato giustamente evidenziato, non possiamo dimenticare il citato protagonista, ovvero il paesaggio, che è generatore di tutta una produzione artistica che nei primi anni del Cinquecento, a Venezia ma non solo, si carica di una nuova forza espressiva. Si tratta di una esaltazione della natura (con i suoi fenomeni e manifestazioni) in cui l’uomo non rappresenta più il centro di tutte le cose ma un elemento accidentale, secondario.

Nel dipinto di Giorgione la visione e la potenza della natura, poetica ricca di fascino e di mistero, viene cristallizzata nell’attimo in cui il cielo è squarciato da un lampo che trasforma ogni apparenza: l’acqua si incupisce al passaggio delle nubi scure e gli edifici si illuminano all’improvviso bagliore (F. NEGRI ARNOLDI, 2004).

In questa impressione pittorica gli oggetti perdono la consistenza che li caratterizza e assumono una particolare variazione tonale, conquista, in questo periodo, insita nella ricerca artistica della scuola veneta.

La costruzione dell’immagine è affidata così a una calcolata orchestrazione delle campiture cromatiche. Al contempo l’adozione di una tecnica per velature sovrapposte di strati di colore permette di ottenere tonalità intense e sature anche nelle zone più scure. Un uso sempre più creativo del colore, favorito dall’impiego dell’olio come legante, porta a un chiaroscuro morbido e avvolgente che annulla i decisi contorni delle figure tipiche della scuola toscana nonché i passaggi repentini tra luce e ombra. Sfumando delicatamente i toni, Giorgione smorza gli effetti timbrici e accorda l’intero dipinto sulla stessa intensità cromatica (A. FREGOLENT, 2001).