di Stefano Di Palma
Una donna dallo sguardo magnetico, rappresentata in una posa inconfondibile ed inserita in un paesaggio misterioso. Questi sono tre degli infiniti elementi che connotano questo ritratto, esaltato dalla critica come un mito e un simbolo della storia della pittura fino a diventare nella sensibilità contemporanea una icona pop. La Gioconda è questo e molto di più.
Tutte le ricerche scientifiche ed artistiche di Leonardo da Vinci (1452-1519) trovano espletazione in questo dipinto. Si ricorda che per Leonardo la pittura, è suprema arte e summa di ogni conoscenza concessa all’uomo ed è equiparata alla filosofia naturale che indaga l’apparenza delle cose e le cause dietro di essa celate; con questa nuova ed irrompente concezione, agli inizi del secolo XVI, Leonardo allarga la sfera del rappresentabile a ogni campo della realtà e dell’immaginazione.
Cerchiamo ora di capire concretamente cosa comporta un simile atteggiamento culturale. Finissima nell’attenzione descrittiva del dato naturale, l’opera evoca l’essenza stessa della natura, diffusa nello spazio e nel tempo, con un paesaggio preannunciatore di un cataclisma. Anche se sono stati riconosciuti alcuni elementi esistenti, come quello della destra individuato come il Ponte a Buriano (Arezzo), ogni riferimento topografico diviene secondario, visto che si tratta di un paesaggio che ha significato universale e che comunica l’impressione di una trasformazione cosmica in atto. Si delinea così anche un radicale cambiamento di impostazione rispetto alla tradizione ritrattistica di stampo numismatico ancora in voga nell’Italia del Quattrocento. In tal senso, Leonardo (assieme a Antonello da Messina) si rivela straordinario interprete della sintesi italo – fiamminga, visto che dalla tradizione del Nord derivano il taglio del mezzo busto a tre quarti. Si tratta di un modulo studiato anche dal Verrocchio (maestro di Leonardo) per valorizzare anche le mani del personaggio.
Da una simile considerazione, si evince che nel dipinto sono protagonisti sia la natura di sfondo sia la donna in primo piano ed il vivo senso atmosferico presente ovunque nell’opera rinsalda questa particolarità.
Molte ipotesi sono state fatte sull’identità dell’effigiata. All’inizio del Novecento, si sostenne che la donna non era mai esistita o, addirittura, che il quadro rappresentasse un ambiguo autoritratto di Leonardo. Oggi, successivamente ad accurate ricerche, si conferma l’antica identificazione già trascritta da Giorgio Vasari: la donna è Lisa Gherardini, moglie del ricco setaiolo fiorentino Francesco Del Giocondo, fornitore dei Medici e cliente di ser Piero, notaio e padre di Leonardo. Lisa divideva il suo tempo tra Firenze, dove era nata nel 1478, e il Chianti dove la famiglia aveva dei poderi.
Leonardo inizia a dipingere questo ritratto intorno al 1503 per terminarlo molti anni più tardi. Del proverbiale sorriso di Monna Lisa, che indubbiamente esprime al contempo attenzione e distacco (peraltro non lontano da altre realizzazioni di Leonardo maturo), è convincente la semplice spiegazione che ci offre il Vasari il quale scrive, nella biografia del pittore, che esso è causato dalla presenza di buffoni che l’artista volle affinché rallegrassero la dama durante le estenuanti ore di posa ed evitare così l’inconveniente consueto della riuscita di un ritratto troppo malinconico.
La maggiore attrattiva di questo olio su tavola nasce da quel senso di leggera instabilità che lo pervade. Monna Lisa esprime in maniera impercettibile un moto interiore che è sospeso tra una opaca malinconia e un’ancestrale inquietudine, reso ancor più suggestivo dalla fioca luce crepuscolare che sfoca i dettagli superando così i confini del naturalismo ed evocando il mondo dell’astrazione.
Il fascino di quest’opera d’arte, conservata presso il Museo del Louvre di Parigi, si perpetua anche nelle vicende che seguono la sua genesi. Il ritratto, uno dei più copiati al mondo (se ne contano almeno 50 copie risalenti solo ai secoli XVII e XVIII) entrò a far parte delle collezioni di Francesco I a Fontainebleau; nel 1800 fu collocato alle Tuileries, nella camera da letto di Napoleone e nel 1804 passò alla Grande Galerie, dove gli fu assegnato un posto d’onore. Nel 1911 l’opera fu rubata ed il poeta Apolinnaire, sospettato di complicità, fu arrestato; due anni dopo, il ritratto fu ritrovato a Firenze: era stato rubato da un imbianchino italiano che lo aveva tenuto nascosto sotto il letto.