di Stefano Di Palma
Nel 1469 Ippolito Roselli e sua sorella Maria, moglie di Domenico Porrini fondano, presso la principale chiesa di Sora, una cappella oggi perduta. L’informazione ci è trasmessa da una fonte del secolo XVIII che ci descrive le pitture murali che questo spazio accoglieva (cfr. ASD, Visite Pastorali 1703).
Sappiamo che nel vano era presente un’iscrizione che riportava i dati appena menzionati e che vi erano effigiati san Gregorio papa, san Domenico abate e sant’Eleuterio; nella parte superiore vi era raffigurata la Madonna con il Bambino e due angeli.
La lunetta, odiernamente visibile nella navata di sinistra al di sopra della porta secondaria che collega la cattedrale di Sora al cortile dell’episcopio, è dunque un frammento superstite di una più grande illustrazione liturgica eseguita ad affresco nella seconda metà secolo XV; all’epoca della sua stesura, la decorazione occupava dunque un maggiore spazio sottrattogli, con ogni probabilità, con la successiva riqualificazione del secondario accesso alla chiesa, attuato nel 1731 dal vescovo De Marchis.
La lunetta, di esigue misure, è scandita da una cornice dipinta che presenta dei motivi ad ovuli ed astragali nella parte curva e motivi a fogliame in quella retta. L’apparizione raffigurata si svolge in un luogo ultraterreno, ratificato dal pittore da densi cumuli di nuvole descritti con nitido senso grafico negli infiniti rigonfiamenti dei contorni. Dalle nuvole centrale fuoriesce la Madonna, vestita di una tunica rosacea ed un manto azzurro cupo, che sostiene con entrambe le mani un Cristo infante raffigurato in piedi e nudo; alle spalle dei protagonisti si apre uno spazio di luce, mentre ai lati due angeli inginocchiati adorano a mani giunte il sacro gruppo.
Le gamme cromatiche utilizzate dal pittore sono estremamente ridotte, nel segno del pieno rispetto di uno dei tratti tipici della tecnica esecutiva. Esse consistono essenzialmente nel bianco delle nuvole e nel giallo dello sfondo con cui è resa nel complesso l’ambientazione della scena; a queste si aggiungono i rossi, i verdi e gli azzurri tendenti al grigio, utilizzati nelle porzioni figurative. In quest’ultime, il colore è steso a larghe superfici su cui si aggiungono tratti lineari che puntualizzano le espressioni degli ingenui volti ed i panneggi degli abiti.
Nel caso dei due angeli, l’esecutore attua uno schema modulare (profondamente ravvisabile nella tipologia del viso, delle vesti e della postura) anche se leggere divergenze sono presenti ad esempio nella disuguale resa della congiunzione tra il busto e le gambe e le diverse soluzioni dell’andamento degli indumenti, subordinato al comune gesto delle mani giunte.
L’opera, molto danneggiata, mostra delle analogie con la Madonna con il Bambino dipinta sempre ad affresco intorno all’ultimo quarto del secolo XV da un anonimo maestro ad Alvito presso la chiesa di Santa Maria in Campo, che risulta aggregata alla Mensa Vescovile di Sora già nel 1100; è possibile che, pur essendo meno dotato e soprattutto indipendente nella resa finale, l’ignoto pittore dell’esempio di Sora si sia ispirato all’esempio di Alvito o quanto meno può averlo avuto in mente come riferimento durante la redazione della sua opera. Se ci si basa sulla datazione proposta per l’opera di Alvito, che stride lievemente con quella di Sora, è possibile pensare ad una sorta di vocabolario pittorico comune fortemente influenzato dalle istanze locali al quale abbiano attinto, con le dovute differenze, sia il maestro di Alvito sia il pittore di Sora.
La produzione di quest’ultimo riflette anche dei motivi stilistici ed iconografici di chiara estrazione tardo gotica dei quali si evidenziano il modo di trattare il panneggio delle vesti e soprattutto il corpo di luce che, investendo la Madonna ed il Cristo, ripropone, attraverso il solo uso del colore, l’antico motivo della mandorla (cfr. S. DI PALMA, 2015).