di Stefano Di Palma
Una delle più antiche pitture custodite nella Cattedrale di Sora si trova nell’ambiente del secolo XVIII ubicato nel fondo della navata di destra ed adiacente al presbiterio, ovvero la cappella del Purgatorio. L’immagine sacra è dipinta entro un trittico ligneo cuspidato e raffigura il Salvatore tra gli angeli.
L’intero scomparto centrale è occupato dalla monumentale figura del Cristo che appare assiso sopra un trono marmoreo configurato plasticamente come un’architettura intessuta da cornici e decori. Il volto del Salvatore è redatto dall’ignoto pittore secondo la classica impostazione che comprende un contorno facciale squadrato, capelli lunghi, barba a riccioli e bipartita, bocca chiusa ed occhi intensi; all’altezza delle orecchie si aggiunge l’aureola dorata che sembra incoronare la testa più che incorniciare il viso e nel cui interno è scritto IESVS CRISTVS. Il Redentore indossa una tunica rossa munita di massicce bordature dorate e vivacemente mossa racchiusa, parzialmente, entro un manto scuro ricco di caldi ricami. Tale ricercata preziosità evidenzia i solenni gesti effettuati dal Cristo, il quale presenta la mano destra sollevata e benedicente mentre la mano sinistra sostiene un libro aperto su cui si legge: EGO. SVM. ALPHA. ET. O. INITIVM.
Negli scomparti laterali, sono raffigurati due angeli in piedi che adorano il Messia; essi sono provvisti di ali verdi ed indossano una tunica azzurra, una mossa sopravveste rossa che si gonfia d’aria sulle spalle e calzari purpurei. Gli esseri celesti presentano una medesima impostazione compositiva e coloristica, anche se quello di destra è connotato da una migliore configurazione facciale.
Sul rovinato bordo della tavola centrale, si trovano due frammenti di un’iscrizione che in origine doveva essere più estesa e che riporta il nome di un certo IOANNIS (non sappiamo se si tratti del committente o del pittore) e la parziale data MCC. Questi residui, insieme alla mancanza di un’appropriata documentazione, gettano nell’ombra qualsiasi attribuzione certa dell’opera come anche una sua precisa collocazione cronologica. Nonostante queste gravi incertezze, è possibile effettuare alcune considerazioni stilistiche dalle quali si evince che questo oggetto sacro, probabilmente di antica destinazione liturgica, si qualifica come lavoro composito di notevole interesse per la cultura artistica locale.
La centrale figura del Cristo è stata riconosciuta come citazione di un modello conservato nella chiesa di Santa Maria Maggiore in Alatri, ovvero il trittico raffigurante il Salvatore con la Madonna e San Sebastiano, firmato dall’artista Antonio da Alatri, che fu attivo attorno al 1430 oppure più propriamente tra il 1440 ed il 1450. Sulla base delle potenti diversità stilistiche che intercorrono tra l’opera di Sora e quella di Alatri e sulla discordanza della critica nel rilevare gli esempi da cui lo stesso Antonio attinge, sembra più opportuno parlare di una circostanziata ispirazione che il pittore del trittico sorano trae dal più noto precedente.
Il comune sostrato su cui si basa la redazione delle due opere è indubbiamente la cultura tardo gotica, sulla quale s’innestano le prime manifestazioni locali delle istanze rinascimentali, ma il trittico della Cattedrale di Sora ci tramanda solo una parziale certificazione nel territorio della fama della pittura di Antonio riducendola ad un’impronta esteriore e nulla di più.
Sulla base dell’osservazione stilistica delle figure angeliche, è stato proposto che l’anonimo pittore abbia subito forti influssi da un fare artistico di più ampio respiro geografico riferibile ai modi del Gozzoli. Ovviamente, ogni ipotesi è da accogliere con la dovuta cautela, ma anche riducendo la portata di un simile apporto nella formazione di questo pittore, è evidente che egli persegue, come mostra il Salvatore e la stesura delle figure angeliche, la strada dell’eclettismo.
Sulla base di quanto esposto si può affermare che l’opera sia stata eseguita da un pittore operante nella seconda metà del secolo XV di formazione tardo gotica sensibile, ma non addentrato, al linguaggio della nuova arte quattrocentesca. La mancanza, per ora, di altri lavori della medesima mano, l’ampiezza degli schemi compositivi a cui quest’artista si riferisce nonché la facile trasportabilità della struttura che accoglie questa pittura, portano a collegare l’opera ad un artista non propriamente sorano, ma comunque agganciato alla cultura locale e laziale di cui si mostra conoscitore (cfr. S. Di Palma, 2015).