Cap XXIX
DE-GENERAZIONE
Non vollero farmela vedere in quello stato, la vidi solamente in seguito, nella sua bara. Sembrava quasi che dormisse, aveva l’aria così distesa e serena, e io non riuscii a versare nemmeno una lacrima per lei. Al funerale ero già ubriaco, e continuai a bere tutta la sera, poi la notte andai sulla sua tomba e le portai una bottiglia di whiskey. Le versai un bicchiere senza ghiaccio, come piaceva a lei, e lo lasciai li sul freddo marmo che portava l’iscrizione di una triste e prematura mancanza. Il resto della bottiglia lo bevvi io riducendomi a perdere conoscenza con la faccia nella terra. Quando mi svegliai puzzavo come una distilleria e barcollando mi persi lungo il viale. Tornato in me, più che altro sobrio mi misi in viaggio per fare personalmente rapporto ad Aprile, che incontrai con tutto il consiglio in una delle nostre case sicure.
–tutto è compiuto, ora può partire la tua maledetta campagna primavera di fuoco. Io mi chiamo fuori da tutto, sono stanco, basta! E per quanto riguarda il consiglio… non mi è mai interessato farne parte, e non ne ho mai fatto veramente parte… nessuna delle parti ha da perderci… Me ne torno a Menton, ma prima ho un’ultima cosa da fare e voi mi “dovete” un favore… voglio il nome dell’assassino… l’assassino di Valeria, e non avrò pace finché non l’avrò trovato… me lo dovete!-
-calmati amico mio-
Mi disse Aprile stringendomi una mano sulla spalla
-capisco cosa stai passando adesso ma devi capire che ci sei essenziale e…-
-non me ne frega niente… se avete davvero rispetto per me e per la vita che vi ho dato dovete lasciarmi andare e darmi ciò che chiedo…-
Nel silenzio a seguire gli uomini si guardarono ripetutamente tra loro senza proferire parola. Era come se comunicassero telepaticamente, ma la verità è che sapevano che avevo ragione e che non avevano nessun diritto di vita su di me, eravamo tutti uguali e io avevo sulla mia storia un peso che mi dava il sacrosanto diritto di essere libero. Così fui rimandato a Napoli con la benedizione di tutti, con il nome dell’aggressore a cui si stava già preparando un provvedimento, ma con l’augurio di vivere una vita nuova e onesta, questa era la formula che avrebbe sciolto la promessa seguita da una serie di strette di mano e dalla consegna di un anello in argento su cui erano incise le nostre iniziali. Quell’anello era come un sigillo che testimoniava la sospensione autorizzata a non fare parte degli affari dell’organizzazione finché esso non verrà restituito, e dava diritto ad essere sostenuto in ogni richiesta in cambio dei servigi svolti. Esistevano solamente tre anelli in circolazione perché era quasi impossibile entrarne in possesso, bisognava arrivare al limite per guadagnarlo e quindi dimostrare di meritarlo. Io lo meritavo più di chiunque. Mentre ero in viaggio per Napoli non riuscivo a pensare ad altro che a Valeria, e mi rivennero in mente le ultime parole di Aprile
-ricorda, hai dodici ore di tempo, poi primavera di fuoco scenderà come una spada sulle teste dei colpevoli, e ciò ti darà poco spazio di movimento sia per la tua vendetta, sia per lasciare l’Italia-
avrei dovuto studiare una strategia per uccidere quel balordo, ma il mio pensiero era diretto a lei. Non avrei dovuto lasciare che partecipasse all’operazione o almeno avrei dovuto affiancargli qualcuno, e questo mi faceva sentire profondamente colpevole. Tutti quei segni, e poi l’incubo in cui era evidente la sua morte per causa mia… ormai potevo solo vendicarla ma sapevo che questo non l’avrebbe riportata in vita, la vendetta non sarebbe servita a niente, lo sapevo, ma almeno mi avrebbe sedato per un po’. Giunto a Napoli mi diressi nel quartiere che ospitava il palazzo in cui avrei trovato l’uccisore di Valeria, ci andai diretto fregandomene di tutto e di tutti senza preoccuparmi che avrei potuto morire lì una volta commesso l’omicidio, sarei potuto non uscire vivo da quel palazzo o da quel quartiere, ma non mi importava, era un prezzo che ero disposto a pagare, pagare con il mio sangue la perdita insensata di una giovane. Mentre mi avvicinavo all’ingresso misi in tasca un paio di caricatori, aprii il coltello che misi alla cintola pronto alla mano, fissai bene il silenziatore alla canna della mia M9 e l’armai facendo scorrere il carrello. Entrai nel palazzo avendo già la pistola in mano senza curarmi che fosse in vista, ed entrai nell’ascensore da cui uscirono un paio di ragazze sulla ventina, e talmente assorte nello sgallettare in discorsi da poco conto che non fecero caso a chi avevano appena incrociato. A guardarmi da fuori facevo paura, armato vistosamente e con uno sguardo omicida stampato sul volto, come un terrorista pronto a farsi saltare in aria pur di portare con se più anime possibili. Non avevo molto tempo per eseguire l’azione, dovevo sbrigarmi per poter partire alla volta di Menton. Fortunatamente quando si aprì l’ascensore non c’era nessuno in giro, percorsi velocemente il corridoio fino ad arrivare alla porta del mio ultimo nemico. Feci un gran respiro per cercare di diminuire l’adrenalina che ormai circolava imperante nel mio corpo rendendomi rigido come un pezzo di marmo, sfondai la porta con un calcio che fece saltare parte del telaio in legno che incastonava la serratura, e scivolai a gran velocità nell’appartamento a pistola spianata. L’uomo era seduto su una poltrona, dava su una televisione il cui schermo trasmetteva immagini distorte e discontinue emettendo fruscii e segnali fuori onda. Avvicinandomi mi resi conto che si trovava in uno stato di incoscienza, e sul tavolinetto ai suoi piedi c’erano delle birre vuote e una siringa sporca di sangue affiancata da un laccio emostatico. Era talmente cotto che non aveva sentito la porta esplodere alle sue spalle, non potevo ucciderlo così, perciò presi la mia lama e la conficcai nella sua gamba destra al che sussultò come se fosse tornato dal mondo dei morti sollevandosi dallo schienale come farebbe un vampiro dalla bara. Mi fissò come uno spettro avesse fatto comparsa, uno spettro venuto dagli inferi e pronto a portarlo indietro con se. La sua attenzione si spostò sul coltello incastonato nella gamba, sembrava ne facesse naturalmente parte, ma dava via libera ad una copiosa fuoriuscita di sangue che in un attimo impregnò il divano di tessuto bianco. Lanciò un urlo di terrore più che altro per la veduta che aveva sotto gli occhi, mosse le mani tremolanti per cercare di rimuovere l’oggetto, al che io gli diedi un colpo con l’impugnatura della pistola sul naso, in un attimo cominciò a spruzzare sangue come un rubinetto…
-lascia stare il coltello, è quello il suo posto ora…-
-chi… chi diavolo sei carogna… sei un uomo morto… morto capito?-
Un sorrisetto malvagio spuntò sulla mia bocca
-no! sei tu che sei morto! Sono qui per giudicarti per crimini contro gli uomini e per vendicare la morte di Valeria, la ragazza che hai ucciso tre giorni fa durante la tentata rapina qui a Napoli…-
-Valeria? Si me la ricordo la puttana a cui ho fregato la macchina… ha cercato di opporre resistenza colpendomi con una serie di gomitate al volto ma io avevo già in pugno la mia pistola e non ci ho pensato due volte a riempirla di piombo…-
Appena udii quelle parole di disprezzo, automaticamente mi partì un calcio diretto sotto il suo mento facendolo rivoltare con tutta la sua maledettissima poltrona ormai zuppa di sangue. Feci velocemente il giro e gli piantai il piede sulla gola impedendogli di sparare altre stronzate, così diressi la mia pistola in direzione della sua fronte e lo freddai sfigurandolo con sei colpi. Gli sputai addosso, poi mi feci il segno della croce promettendo, che se Dio avrebbe voluto, quello sarebbe stato il mio ultimo delitto. Estrassi il mio coltello, lo pulii per bene e lo rimisi alla cintola. Presi poi l’accendino dalla tasca e diedi fuoco alle tende della grande finestra che dava sulla strada. Rinfoderai la pistola dopo averla ricaricata per sicurezza, e coltello alla mano mi diressi verso l’esterno per abbandonare l’edificio. Se qualcuno mi avesse intralciato il cammino l’avrei solamente tagliuzzato senza ucciderlo. Basta morte per mano mia. Varcata la porta mi diressi verso le scale oltre l’ascensore, per muovermi senza il rischio di incontrare qualche compare dell’ormai cadavere giacente alle mie spalle, ma in prossimità delle scale, l’ascensore si aprì, e un tipo dall’aria minacciosa venne fuori armato di due pistole semiautomatiche. Io d’istinto avevo già impugnato il mio coltello a scatto, e appena il tipo si voltò nella mia direzione mi gettai su di lui accoltellandolo, prima ad un braccio, e poi colpendo con una ginocchiata sotto il gomito dell’altro gli procurai una seria frattura al braccio, lo disarmai e lo colpii di nuovo, ripetutamente al volto finché non perse conoscenza. Non sarebbe andato in giro a chiedere aiuto così conciato. Pulii la lama con la sua camicia e mi diressi di gran fretta giù per la tromba delle scale, lì un altro tipo fece capolino dalla porta del suo piano, ma io che ero già spedito non feci altro che travolgerlo, facendolo volare giù rotolando e sbattendo ovunque la testa, quando si fermò lo superai con un balzo e continuai la mia corsa. Arrivato al piano terra sentii un gran trambusto, gente che urlava per il fuoco cercando di mettersi in salvo, gente che urlava che era successo qualcosa, gente che urlava invocando il mio sangue. Ero stato visto dalla strada entrare armato e minaccioso in quell’edificio, perciò calcolando che mi trovavo in un quartiere e in una città con una certa fama, qualcuno si era messo in moto per mantenere, diciamo così, l’ordine. Presi l’uscita dal retro, ma un altro uomo armato era già li che stava per entrare, lo afferrai per le mani che stringevano contemporaneamente la pistola e le spinsi in alto contro il muro, mentre con l’atra lo accoltellavo alla coscia, lo colpii con un pugno alla gola facendolo stramazzare a terra ma nel frattempo aveva sparato un paio di colpi per aria attirando l’attenzione di altri. Gli sfilai la pistola che gettai lontano dal suo corpo e mi diedi in direzione di una macchina che era parcheggiata proprio lì a un paio di metri, saltai dentro dopo aver sfondato il finestrino che mi permise di aprire l’auto, e con l’aiuto di alcune nozioni acquisite in carcere feci partire l’auto collegando alcuni fili sotto lo sterzo. Mi lanciai a gran velocità lungo la strada inseguito da pallottole che fischiavano nell’aria colpendo l’auto ai vetri e sulla carrozzeria, mentre filavo spedito sempre più in lontananza, guidando veloce come un pazzo ubriaco ma conscio delle manovre spericolate che eseguivo nel pieno del traffico giornaliero. A distanza vidi una pattuglia della polizia che faceva un normale posto di blocco perciò voltai subito l’angolo e abbandonai la vettura in un garage aperto. Mi allontanai a passo svelto ma senza correre, e mi infilai in un taxi provvidenzialmente in sosta che scaricava un cliente davanti una pensione. L’uomo mi guardava allertato dal mio aspetto e dalla quantità di sangue che ricopriva i miei vestiti, ma non si sognava nemmeno di contraddirmi per paura di una ritorsione. Mi feci portare alla stazione e gli diedi duecentomila lire per i suoi vestiti. Mi mossi a tratti con vari mezzi in direzione La Spezia, dove mi imbarcai su una nave diretta a Cannes, pagando sottobanco il capitano che mi avrebbe assicurato anche lo sbarco, senza che nessuno mi controllasse o mi chiedesse nulla. Da lì mi sarei diretto a Menton. Durante il viaggio mi sentivo tormentato, come quando il caldo non ti lascia libero di riposare nel letto. Non mi sentivo pienamente soddisfatto della mia vendetta, si… quel bastardo meritava di morire, ma il suo sangue non aveva dato pace alla mia anima. Pensandoci bene l’omicidio non aveva ripagato la perdita della giovane ragazza, era quello il problema… il sangue non chiama giustizia anche se siamo convinti che sia così… non ci restituisce le persone che ci sono venute a mancare… non ci restituisce il sonno nella notte… non ci restituisce la felicità e la naturalezza di una vita onesta… aggiunge solamente un altro peso sulla nostra coscienza. Mi sbarazzai della pistola, della fondina e delle munizioni, ma tenni il mio coltello stiletto a cui mi ero affezionato pensando che sarebbe stata l’ultima arma che avrei mai potuto impugnare ma al solo scopo di difesa. Lo vedevo più che altro come un portafortuna che dalla fuga al carcere di Milano mi aveva sempre portato bene, e comunque senza un arma mi sentivo come nudo. Arrivato a Cannes mi diressi a Cap-d’Ail vicino Port de Fontvieille una piccola porzione di terra il cui suolo appartiene al Principato di Monaco, in cui feci sosta nell’attesa che la campagna primavera di fuoco volgesse al termine. Il tempo era scaduto e notizie inquietanti giungevano dall’Italia. L’uccisione di militari di spicco, politici, borghesi e malavitosi trovarono la morte in unica data, un giorno che non sarebbe mai stato dimenticato, mai. Sarebbe rimasto impresso nella storia e nelle menti di tutto il mondo l’omicidio di massa rivendicato attraverso un video su tutta la rete nazionale, l’unica e ultima rivendicazione della Killer Karman che metteva in luce sia la sua esistenza e gli scopi di questi furfanti cospiratori che si erano mossi contro l’Italia e contro il suo popolo. Questo aveva segnato un era da cui l’intera popolazione avrebbe dovuto prendere atto, e soprattutto le redini del paese, affinché scomparisse la corruzione e l’ingiustizia al fine di far risorgere una potente nazione ricca di storia e di figure che hanno contribuito a scriverla. Dentro di me speravo che tutto questo era servito a qualcosa, e ripensai a mio padre che aveva combattuto e perso la vita per una libertà collettiva, aveva combattuto anche per gli altri, aveva fatto la sua parte, così mi sentii sollevato e ripresi la via per Menton. Quando arrivai a casa di Axelle notai che nulla era cambiato, anche se erano passati diversi anni era rimasto tutto come allora. Entrai ma facendo un giro nella casa notai che era vuota. Passai in cucina e vidi che c’erano alcune verdure che bollivano in una pentola sul fuoco, era uscita per la spesa e presto sarebbe tornata, ma non sapevo se ancora mi voleva, se l’avevo ferita in qualche modo… mi versai da bere e aspettai sul divano mentre fumavo una sigaretta. Sul camino c’era una mia vecchia foto che risaliva a prima del periodo della mia permanenza in questo posto ed un pacco di lettere, che avvicinandomi mi accorsi erano mie… non era vero che le aveva bruciate, ma perché Alexandre mi aveva detto quella bugia? Ero confuso, non sapevo cosa pensare… in quel preciso momento sentii una violenta botta sulla testa e caddi senza sensi. Quando mi ripresi c’era Alexandre che cercava di farmi riavere con l’ausilio di una pezza bagnata
-excusez moi François pensavo fossi un ladro o altro, non ti avevo riconosciuto lo giuro…-
Quando lo misi bene a fuoco mi alzai dal divano su cui mi aveva steso
-Alexandre amico mio come stai? Ti vedo in forma…-
-anche tu stai benone… ho saputo delle tue ultime imprese, come al solito sei il migliore… un grande… ho saputo anche della tua sventurata amica, e mi dispiace molto-
-brutta storia, ma ormai è parte di un passato che mi sono lasciato alle spalle e che non voglio più rivivere… ho chiuso con questa vita, sono libero ormai…-
-ti capisco François, è tutto passato, l’importante è che sei qui adesso-
-Axelle? Tua sorella dov’è?-
-è uscita e sarà di ritorno da un momento all’altro… sai, non ti ha mai dimenticato e non ha mai smesso di volerti bene. Mi chiese lei in caso ci fossimo messi in contatto di dirti che non voleva più saperne di te perché voleva che vivessi la tua vita anche se questo significava lasciarti ad un’altra donna-
-Valeria… le volevo molto bene, una bella ma breve parentesi che avevo deciso comunque, prima della sua prematura morte, di chiudere per tornare da Axelle… è lei che ho sempre voluto-
Alexandre mi guardò sorridendo con un espressione che indicava una totale fiducia nelle parole che avevo pronunciato, voltò poi lo sguardo verso l’ingresso che attirò la mia attenzione e vidi Axelle lì immobile. Le borse intrecciate in paglia che stringeva tra le mani caddero al suolo rompendo quell’istante di silenzio che si era creato e si lanciò tra le mie braccia, gioiosamente, stringendomi con tutte le sue forze. Incrociammo i nostri sguardi che furono più eloquenti di mille e mille parole. Parlammo molto e festeggiammo tutta la notte la fine delle nostre sofferenze e l’inizio di una nuova vita libera e onesta. Ci svegliammo al mattino nello stesso letto che avremmo condiviso fino alla nostra vecchiaia, e mi sembrava di poter toccare il cielo con un dito. Accesi la radio ed ebbi come una specie di dejavu. All’apparecchio il cronista commentava il rinnovato successo di un giovane statunitense:
“…un nuovo traguardo per l’artista Bob Dylan che questa settimana ha ricevuto una Laurea Honoris Causa in Musica dalla Princeton University, New Jersey… il nuovo album New Morning pubblicato dalla Columbia Records, lo ha portato per la sesta volta in cima alle classifiche inglesi…La canzone che ha avuto commercialmente più successo è If Not for You, riarrangiata anche dal Beatle George Harrison, ma ora vi lasciamo con un altro fantastico brano dell’album: The man in me…”
La musica era fantastica e allo stesso tempo rilassante. Ero totalmente catturato dalla situazione. D’un tratto Axelle si voltò verso di me e le sue labbra si posarono sulle mie, il sapore del mare era in lei, la stinsi tra le mie braccia, poi fissandomi con un espressione di felicità dipinta sul volto mi disse
-Je t’aime-
Mi sussurrò altre cose fissandomi con i suoi luminosi occhi verdi mentre la musica e le parole da cui eravamo circondati sembravano essere composti per quella esatta situazione, per noi, e avvolgendoci ci incorniciavano come in un opera delicata e mai realizzata.
“L’uomo in me farà quasi tutto
e come compenso chiederà poco
Ci vuole una donna come te
per raggiungere l’uomo in me
Nuvole tempestose infuriano alla mia porta
penso fra me e me che potrei non farcela più
Ci vuole una donna con il tuo carattere
per cercare l’uomo in me
Ma, oh, che sensazione meravigliosa
sapere che tu sei vicina,
fa andare il mio cuore su e giù
dalla testa ai piedi
L’uomo in me a volte si nasconderà per non essere visto,
ma questo accade solo perché non vuole diventare una macchina.
Ci voleva una donna come te
per raggiungere l’uomo in me”.
Era il momento più bello della mia vita. Mentre ero assorto in quella meravigliosa situazione la porta si spalancò violentemente, dall’uscio vennero fuori tre uomini armati di Uzi che aprirono il fuoco su di noi fino ad esaurire tutte le munizioni, crivellandoci con il loro proiettili profani. Rimanemmo lì ad annegare nel nostro stesso sangue che aveva ormai intriso le lenzuola bianche e a pezzi, mentre le piume dei cuscini scendevano dolcemente su i nostri corpi sfigurati e sovrastati dagli schizzi di sangue sulla parete alle nostre spalle, formando immagini inconcepibili e perfette, brutalizzate. Un immagine cruda ma piena di pace eterna. Eravamo nella luce. Finalmente la pace… Gli uomini uscirono dalla porta soddisfatti e compiaciuti mentre la radio suonava nuove musiche e annunciava nuovi eventi…
…una nuova de-generazione…