Degenerazioni - Memorie di un assassino

DEGENERAZIONE – MEMORIE DI UN ASSASSINO. CAPITOLO IX – ‘UNA PINTA DI BIRRA A NAPOLI’

DeGenerazione – memorie di un assassino
di
Marco Fosca ed Emilio Mantova

IX

Una pinta di birra a Napoli

Due settimane dopo la riunione tenuta nel casale ricevetti nuove istruzioni dall’organizzazione, una decina di pagine scritte col normografo, consegnatemi da un compagno fiancheggiatore: “Rapporto dell’Istruttoria”. In altre parole lo studio delle abitudini e dei movimenti del soggetto da colpire. L’ingegner Autori!
Dopo la sentenza di morte emessa dall’organizzazione, il soggetto era stato pedinato incessantemente per una settimana. Il rapporto proseguiva cosi: “La zona del quadrante B38 è abbastanza piccola da poter essere percorsa in bicicletta. Non ci vuole molto. Dalla stazione centrale bastano una ventina di minuti. E poi la strada è tutta dritta senza pendenze.”
Il soggetto non si era mai accorto di nulla. Ma era stato oggetto di uno studio di tredici pagine che aveva registrato tutti i suoi spostamenti con una puntigliosità agghiacciante. Nell’ultima settimana era stato seguito ovunque. Soprattutto nel tragitto che da casa sua andava all’ufficio. Se entrava in un bar in via Europa a fare colazione, qualcuno, in una cabina, inseriva un gettone e telefonava; se si dirigeva in corso Vittorio Emanuele, dove c’era la sede degli uffici della S.I.M., qualcuno da una cabina chiamava subito; se andava a casa della moglie del padre in via Tommaso Landolfi, stessa cosa. Passo dopo passo era stato seguito e ogni suo movimento era stato comunicato a qualcuno, che avrebbe disegnato intorno a lui una ragnatela di luoghi e orari, fitta e stretta come una trappola. Le telefonate di controllo si susseguivano dalla mattina quando l’ingegnere usciva di casa fino alla sera quando rientrava. Il rapporto era diviso in cinque capitoli che analizzavano scientificamente la soluzione al problema pratico di come farlo fuori!
Dal capitolo 1, “Tempi pratici di realizzazione”, al capitolo 5, “Bozza programma di lavoro”, tutti i movimenti, entrate e uscite da edifici, tutte le soste, erano state registrate, analizzate e classificate secondo un criterio di migliore opportunità per ucciderlo. Ce n’erano tre di queste opportunità divise in tre piani (a, b, c), tra cui scegliere. Uno studio scientifico, maniacale nei particolari. Addirittura erano stati seguiti anche la moglie e i figli: “Tutte le mattine tra le 09:45 e le 10:10 la moglie del soggetto si reca dal parrucchiere in via Cavour. I figli puntualmente alle 07:30 prendono la linea del 72 barrato per andare al liceo.”
Il piano era questo: “Corso Vittorio Emanuele alle 07:20 è quasi deserto, poche macchine, i negozi ancora chiusi. Parcheggiato lungo la strada ci sarà un furgone con il vetro posteriore dipinto di bianco. Nella vernice però ci saranno due graffi, come due occhi felini. Dal portone verde del palazzo color giallo paglierino fino al posteggio, in cui ci sarà il furgone, sono esattamente 128 passi; qualcuno li ha contati. Per il soggetto saranno gli ultimi 128 passi. Come lui arriverà vicino al furgone le porte si apriranno e da lì usciremo e faremo fuoco su di lui.”
Pensavo di dover agire da solo ma non era così, a quanto pare. Il piano comunque sembrava buono e si sarebbe dovuto attuare dopo due giorni. Avendo a disposizione quei due giorni, per togliermi ogni dubbio sul suicidio del dott. Refice, il chimico ricercatore che lavorava in Beverages, decisi di fare un salto dal padre. Tanto comunque non avevo altro di meglio da fare e poi quella storia del suicidio che avevo appreso dai giornali non mi convinceva per niente. Non aveva senso. Volevo vederci chiaro.

Non fu difficile trovare l’indirizzo, dato che il vecchio era proprietario di un negozio di antiquariato nel centro di Napoli.
Non appena mi inoltrai nelle viscere della città, all’improvviso, proveniente da qualche parte in fondo a un vicolo, per la strada si diffuse un intenso aroma di caffè. Mi fermai catturato dal profumo. Poi una porta sbatté ed ebbe la capacità di far scomparire quell’aroma che si era diffuso dall’aria al mio cervello usando le narici come porta d’ingresso. Il cielo era di un azzurro così intenso, come non avevo visto ancora quell’anno. Nel cercare il negozio di antiquariato del padre del dott. Refice, mi ero volutamente perso nei labirinti dei quartieri di Napoli: prima a sud, poi a est, poi a nord, poi ancora a est, smarrendomi coscientemente, incurante della direzione in cui mi muovevo. Camminando sull’acciottolato di una stradina fiancheggiata da casette a più piani con ingressi fatiscenti che davano direttamente sul marciapiede, notai che tutte le abitazioni avevano le porte spalancate e la sensazione era quella di venire accettato a braccia aperte dalla città intera.
Qua e là, sul selciato, pozze d’acqua sporca riflettevano il cielo contornato dai tetti delle case. Un numero impressionante di persone entrava e usciva da quegli scuri ingressi, muovendosi giù per vicoletti strettissimi: ragazze nel fiore dell’età, che erano il ritratto dell’abbondanza e della fertilità e che avevano le labbra imbrattate da rossetti dai colori sgargianti; giovanotti sfacciati che le corteggiavano; donne corpulente dal passo pesante che stavano lì a mostrarti come sarebbero diventate quelle giovani ragazze una decina di anni dopo… dopo una dozzina di gravidanze, più o meno desiderate; uomini vecchi e ricurvi che strascicavano placidamente i loro piedi piatti… anche se a dire il vero la maggioranza della popolazione di quella classe d’età piuttosto avanzata era perennemente seduta davanti alle case, seduta su sedie di legno modello Thonet a fumare lentamente sigarette, che altrettanto lentamente si consumavano trasformandosi in tubi leggermente ricurvi di cenere, che però miracolosamente rimanevano attaccati al filtro e il filtro tenuto stretto tra le labbra di quei vecchi diventava sempre più giallo. Il perché quei vecchi non ciccavano le sigarette, era perché s’erano trasformati in statue, rispettando rigorosamente la legge che ogni sistema in natura tende al minor contenuto energetico. Per lo meno questa era la mia interpretazione di quel modo di fumare. E poi bambini, tanti bambini, cenciosi e scalzi che giocavano nelle pozzanghere, di tanto in tanto disperdendosi alle grida furiose e rabbiose delle loro madri. Due donne mostruose, con gli avambracci color rosso mattone adagiati sul grembiule, stavano chiacchierando sulla soglia di un’abitazione. “Vuoi sentirmi o no? Ti dico che negli ultimi quindici mesi non è mai uscito un numero che finisse con sette sulla ruota di Napoli.”
“È uscito, è uscito.”
“Ti dico di no! A casa tengo conservati tutti i risultati degli ultimi due anni; li tengo segnati su un foglio di carta.”
“Una volta un numero col sette è uscito… mi sembra 27 o 57, ed era febbraio, mi pare la seconda settimana di febbraio.”
“Ma che febbraio e febbraio! Tengo tutto scritto. Te lo dico un’altra volta, un numero…”
Era chiaro che stavano parlando del gioco del lotto. Dopo aver proseguito per una decina di metri, mi voltai ancora una volta a guardarle, stavano ancora discutendo animatamente e più si accendeva la discussione e più i loro volti si coloravano per la disputa. Addirittura, fermandomi a chiedere informazioni sul negozio di antiquariato che stavo cercando, mi ero imbattuto in una cricca di persone che si guadagnavano da vivere vendendo amuleti e sistemi per vincere al lotto. Ottenni facilmente le indicazioni che cercavo e, dopo un po’, trovai finalmente il negozio. Era chiuso, le serrande erano abbassate. Probabilmente avrebbe aperto di lì a una mezz’oretta, visto che erano circa le 15:30. Fortunatamente nel vicolo, sul lato di fronte, vi era un piccolo e squallido bar. Aprii la porta e immediatamente fui investito da un atroce puzzo di birra acida mista a sudore.
Appena entrato, il baccano delle voci degli avventori scese di almeno della metà del volume. Quelli che stavano giocando a carte si fermarono per alcuni secondi e mi fissarono. L’unico che sembrava non essersi accorto della presenza di un estraneo, cioè io, era uno strano vecchio con i baffi arricciati, come era di moda nel secolo scorso, e una bombetta all’inglese sulla testa. Quel curioso vecchio era impegnato in una sorta di alterco col barista, un giovanotto grande e grosso, col naso adunco e un paio di bicipiti enormi. Un altro gruppetto di avventori faceva cerchio intorno con i boccali colmi di birra in mano godendosi la scena.
– Te l’ho chiesto educatamente no! – disse il vecchio con tono annoiato e drizzando le spalle con aria spavalda. – E tu vuoi farmi credere che in questo locale di merda non c’è neanche un boccale da una pinta? –
– T’ho detto di no, e poi che cazzo è ’sta pinta? – rispose il barista appoggiando al contempo i gomiti sul bancone.
– Sentitelo, dice di essere un barista e non sa che cos’è una pinta! Ma ti debbo proprio insegnare tutto! Una pinta è la metà di un quarto e quattro quarti formano un gallone! –
– Mai sentiti questi quarti e questi galloni di cui parli. – tagliò corto il barista. – Qui serviamo solo litri e mezzi litri. I boccali sono sulla mensola davanti al tuo brutto muso. Se non ti sta bene, puoi andare da un’altra parte a scassare i coglioni. –
– Stà a sentire, piccolo stronzetto, adesso cercherò di spiegartelo per bene e con i dovuti modi: se prendo un boccale da un litro, la birra mi diventa piscio prima che io l’abbia finita e poi è pesante e faccio fatica a portarmela sulle labbra, se non te ne sei accorto non sono più quel giovane di un tempo. Mentre se prendo il boccale da mezzo litro, sono costretto a vedere la tua faccia di merda troppo spesso prima che possa sbronzarmi. Capisci adesso? Mi rovineresti la sbornia con la vista della tua faccia da cazzo. La giusta soluzione per evitare tutto questo sarebbe il boccale da 0,66 litri ossia la fottutissima pinta. Capisci adesso? –
Tutti scoppiarono in una fragorosa e sguaiata risata (tra cui anch’io) e la faccia del giovane barista divenne rosso fuoco dalla rabbia repressa. In quell’istante decisi di offrire una birra a quel vecchio, dopo uno spettacolo del genere se l’era guadagnata tutta.
– Posso offrirti da bere? –
– Tu sì che sei un signore! – rispose il vecchio raddrizzando nuovamente le spalle.
– Una mezza birra al signore prego. –
– Visto che sei stato così gentile con me, voglio farti un numero di magia. Con questo numero riesco sempre a vincere da bere. Ma, visto che tu già mi hai offerto un bicchiere, te lo faccio gratis. Vuoi scommettere che riesco a mordermi l’occhio? –
– E come fai, è impossibile! –
– Stà a vedere. –
Assistetti a uno spettacolo a dir poco disgustoso. Il vecchio si cacciò l’occhio di vetro dall’orbita destra e se lo mise in bocca.
– Che schifo! È uno spettacolo raccapricciante! Però, devo dire che ci saresti riuscito a scroccarmi da bere.-
– Adesso facciamo sul serio ragazzo. Ti va di scommettere un’altra birra? –
– Su cosa? –
– Vuoi vedere che riesco a mordermi anche l’altro occhio? Quest’altro come puoi vedere è quello buono. –
Sicuramente la fregatura c’era ma lì per lì non riuscivo a capirla. – Ok, ci sto. –
Anche questa volta il numero fu pari a quello precedente. Il vecchio si ficcò le mani in bocca, si cacciò la dentiera e se la portò sull’occhio buono. A giudicare dall’assenza di stupore che mostravano gli altri clienti, sicuramente il vecchio era solito fare questo numero a ogni nuovo cliente capitato in quel posto.
– Visto, ti ho fregato un’altra volta! –
Lo show era finito e l’andazzo riprese a scorrere come prima e la mia presenza si confuse con quella di tutti gli altri, entrando probabilmente a far parte dei ricordi sbiaditi di quel posto. Il barista dopo aver sciacquato nervosamente i boccali per servirci la birra in un secchio, dietro il bancone, li riempì e mi disse che erano pronti, facendomi intendere che se volevo le consumazioni avrei fatto bene ad andarle a prendere al bancone. Io e il vecchio ci sedemmo in disparte dal resto della marmaglia che aveva ripreso a fare quello che stava a fare.
– Certo che ne devi aver vista di acqua scorrere da sotto i ponti…-
– Più che acqua sotto i ponti ho visto scorrere fiumi di birra attraverso il gargarozzo! –
Quel vecchio era davvero tremendo con la lingua e comunque la presi a ridere. – A parte quello, pensavo a quante cose hai visto e quanti cambiamenti hai vissuto. – gli dissi per attaccare bottone.
– La birra era migliore e costava meno! Quando ero giovane… perché nonostante le apparenze anch’io sono stato giovane… dicevo, quando ero giovane la birra costava quattro penny la pinta. Parlo di quando vivevo a Londra… quattro penny la pinta prima della guerra si capisce. –
È una legge matematica, quando si attacca a parlare con un vecchio, si finisce sempre inevitabilmente a parlare di qualche guerra. Puoi iniziare il discorso da qualsiasi argomento lontano anni luce dalla guerra ma puoi essere certo che un vecchio te lo sa riportare magistralmente sempre alla guerra l’argomento del discorso. I vecchi sono dei maestri indiscussi in questa arte.
– Di quale guerra stai parlando? –
– Le guerre sono tutte uguali, figliuolo, una vale l’altra. –
Su questo aveva ragione. Quindi, alzò per la seconda o terza volta il boccale e raddrizzando di nuovo le spalle…: – Alla salute di vossignoria! –
Impressionante, l’aguzzo pomo d’Adamo del vecchio, gonfiandosi e sgonfiandosi con movimenti in rapida successione, tracannò il resto della birra con una velocità spaventosa. E poi silenzio. Con questo capii che se volevo far cantare il jukebox dovevo necessariamente inserire un altro gettone. Alla fine le teorie del vecchio sul boccale da una pinta erano esatte: col boccale da mezzo litro si doveva fare avanti e indietro tra il tavolo e il bancone troppo spesso. Questa volta ritornai dal vecchio con un boccale da un litro: non mi andava di fare la spola tra tavolo e bancone. Per rompere il silenzio riprovai ad attaccare discorso. – Come si viveva a quei tempi a Londra? –
– Cappelli a cilindro! – disse. Il vecchio parve ravvivarsi dopo quella strana affermazione.
– Che c’entrano i cappelli a cilindro? –
– Cappelli a cilindro! – ripeté – Quando passavi davanti a loro dovevi dire “signore” e toglierti la bombetta o quanto meno esigevano che ti toccassi la bombetta. –
Ormai il vecchio era cotto, appariva palese da come biascicava le parole. Continuò come se stesse parlando per i fatti suoi. – I piedi adesso mi fanno male e la vescica mi dà un sacco di problemi; ogni notte mi alzo sei o sette volte per andare a pisciare. Cazzo sono più di trent’anni che non vado con una donna e vuoi sapere qual è il bello di tutta la faccenda? Non me ne frega un cazzo! Questo è il bello della vecchiaia… non te ne frega un cazzo di niente! –
Continuare la conversazione era inutile, volevo prendere altre due birre ma non mi sembrò più il caso. Il vecchio si era interrotto un’altra volta ed erano circa un paio di minuti che fissava silenziosamente il boccale mezzo pieno che aveva sotto il naso. Inserire un altro gettone mi sembrava inutile, tanto non sarei stato io a scegliere la canzone. A un tratto si alzò per andare a pisciare.
La birra aveva compiuto il suo nefasto effetto sulla sua vescica malridotta. Approfittando dell’assenza di quel simpatico vecchio mi voltai per vedere se il negozio alle mie spalle era aperto. Doveva esserlo, perché la serranda era stata alzata. Il proprietario aveva appena acceso una vecchia lampada a olio che pendeva dal soffitto.