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SOLENNITÀ DI SAN BENEDETTO

SOLENNITÀ DI SAN BENEDETTO PATRONO PRIMARIO D’EUROPA E DI CASSINO

L’emergenza sanitaria,con la quale conviviamo ormai da tempo, ha imposto anche quest’anno di celebrare la Festa del Transito di San Benedetto un po’ in sordina, senza quelle solenni manifestazioni esterne che solitamente l’accompagnano. La coincidenza, poi, con la V Domenica di Quaresima avrebbe reso impossibile anche la celebrazione eucaristica in suo onore, se non fosse intervenuta la Congregazione per il Culto Divino, la quale, con uno specifico indulto, ha concesso al monastero – dove riposano i resti di san Benedetto – di celebrare una S. Messa in onore di colui che è Patrono principale d’Europa, oltre che Patrono della nostra Città di Cassino.

Anche la Fiaccola benedettina Pro pace et Europa una, quest’anno – contrariamente al solito – non è stata portata in alcuna capitale europea. Tuttavia, il 18 marzo, nella Giornata Nazionale in memoria delle vittime dell’epidemia da Coronavirus, essa ha raggiunto l’Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, un luogo emblematico, in quanto, più di altri – durante la prima ondata pandemica – ha pagato un pesante tributo di dolore e di morte.
Ci si potrebbe chiedere il perché di una simile scelta, e quale messaggio di pace e di unità possa aver portato la Fiaccola benedettina in un luogo segnato dalla sofferenza.

Questa le parole dell’Abate dom Donato Ogliati nella sua omelia:

“Possiamo rispondere prendendo spunto dalle Beatitudini che sono state proclamate nel brano evangelico.Prendiamo quella che dice: «Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati».È una beatitudine che può senz’altro essere riferita anche all’esperienza della malattia, della sofferenza e della morte. Il pianto è una reazione naturale che si manifesta quando ci si trova di fronte a un limite – pesante o magari drammatico – con cui si è chiamati a fare i conti, limite che ci fa toccare con mano la nostra vulnerabilità, per non dire – talora – la nostra impotenza.

E se da una parte l’esperienza dei limiti legati alla nostra condizione umana – come la malattia, appunto – può generare timore e angoscia, dall’altra, essa acuisce in noi un duplice bisogno: quello di sentire la vicinanza rassicurante di quanti ci sono cari, e quello di trovare una risposta che dia un senso al nostro soffrire, e, se necessario, imprima una nuova direzione alla nostra esistenza.
Ora, la consolazione promessa da Gesù a chi è nel pianto nasce proprio dall’assicurazione della sua vicinanza. Egli, che con la sua morte in croce ha preso su di sé la sofferenza del mondo intero, continua a farsi presente e a sostenere quanti si affidano a Lui nella sofferenza e nel dolore.Nel farci sentire la sua presenza, egli ci invita, inoltre, a fare altrettanto nei confronti degli altri, indicandoci quale via da percorrere quella della solidarietà, o, meglio detto, della carità, che è il distintivo del cristiano, l’espressione più bella e più piena del nostro impegno a prenderci cura degli altri.

Questo invito a farci prossimi è radicato nell’identificazione che Cristo stesso ha fatto di sé con chi soffre, e dunque anche con chi è malato nel corpo. Nella rappresentazione evangelica del giudizio finale, una delle condizioni per essere ammessi nel Regno di Dio è proprio il riconoscimento che prendendosi cura del malato ci si prende cura dello stesso Cristo (cf. Mt 25,36).

San Benedetto si fa eco delle parole di Gesù quando, nella sua Regola, all’inizio del capitolo dedicato ai fratelli infermi, scrive: «Dei malati bisogna avere cura prima di tutto e al di sopra di tutto per servirli come Cristo in persona, perché lui stesso ha detto: “Ero malato e mi avete visitato”, e “Quello che avete fatto a uno di questi miei piccoli l’avete fatto a me”».
Se il prendersi cura dei malati, nell’ottica evangelica, significa prendersi cura di Cristo stesso, ne consegue che al centro della nostra sollecitudine – sia personale che comunitaria – devono esserci gli anelli più deboli della catena, quelli che, per una ragione o per l’altra, hanno bisogno di essere aiutati e sostenuti dalla nostra vicinanza. Il nostro sguardo di predilezione è dunque chiamato ad indirizzarsi verso i più deboli: i malati, i poveri, gli emarginati.

Di fronte a costoro – dice papa Francesco – il credente non può rimanere indifferente, al contrario «si lascia trafiggere dal dolore», «piange nel suo cuore» e ha il coraggio di condividere la loro sofferenza. Il credente – continua papa Francesco – «scopre che la vita ha senso nel soccorrere un altro nel suo dolore, nel comprendere l’angoscia altrui, nel dare sollievo agli altri. (…) sente che l’altro è carne della sua carne, non teme di avvicinarsi fino a toccare la sua ferita, ha compassione fino a sperimentare che le distanze si annullano. Così è possibile accogliere quell’esortazione di san Paolo: “Piangete con quelli che sono nel pianto” (Rm 12,15)» (papa Francesco, Gaudete et exsultate, 76).Ovviamente – ed è utile ricordarcelo – oltre alla malattia e alla sofferenza fisica che essa porta con sé, il nostro sguardo è chiamato ad allargarsi anche alle altre malattie che deturpano il volto dell’umanità, ossia le tante situazioni di oppressione, di ingiustizia, di violenza, di guerra, che imperversano nel mondo, e che rendono ancor più vere le parole con le quali Gesù ha elogiato – dichiarandoli beati – quelli che «hanno fame e sete della giustizia».

Quella a cui allude Gesù non è, ovviamente, la giustizia umana, spesso manipolata e macchiata da interessi di parte, né quella altisonante e pensata a tavolino, spesso corrispondente a logiche di compromesso, lontane dalla concretezza delle persone che patiscono situazioni di ingiustizia.La giustizia che il Signore vuole che noi pratichiamo è quella a portata di mano, quella evangelica, che si fonda sull’amore cristiano, quella che possiamo realizzare ogni qualvolta siamo onesti con noi stessi e prendiamo le decisioni giuste, volte al bene nostro e altrui, quella che ci impedisce di rinchiuderci in noi stessi e disinteressarci degli altri; quella che ci sprona a contrastare tutto ciò che crea divisione e incattivisce; quella che ci incoraggia a seminare parole e opere buone, che aiutino ad edificare attorno a noi, nelle nostre famiglie e nelle nostre comunità civili e religiose, un clima di concordia, di solidarietà, di condivisione.

Similmente, anche con la beatitudine rivolta agli «operatori di pace», Gesù esorta noi credenti a cercare sempre «ciò che porta alla pace» (Rm 14,19), una pace inclusiva, che favorisca la fraternità e l’amicizia sociale, che miri ad integrare anche quelli che non la pensano come noi o che sono stati sfavorevolmente colpiti dalla vita e che perciò hanno bisogno, da parte nostra, di uno sguardo comprensivo e solidale. Certo, farsi artigiani di pace secondo questa prospettiva «è duro e richiede una grande apertura della mente e del cuore» (papa Francesco). E tuttavia, questa è la strada che il Signore ci ha indicato, se vogliamo essere beati, cioè felici.
Insomma, il mondo ha bisogno di essere guarito a diversi livelli, e la capacità o meno di stare vicino a chi soffre nel corpo ci dà la misura dell’empatia o meno con cui relazionarci agli altri.Anche san Benedetto, nella sua Regola, ci addita la via della coesione comunitaria corresponsabile, creativa e solidale – fondata sul Vangelo di Gesù – come la via privilegiata non solo per andare incontro alle sofferenze del nostro prossimo e alleviarle, ma anche per rendere più giusta e pacifica la convivenza nelle nostre comunità civili e religiose.Nessuno può sfuggire a questo compito, che non è solo cristiano, ma anche umano. Nella logica dell’interdipendenza che ci caratterizza – anche a livello globale – il contributo di tutti e di ciascuno, anche se piccolo, è necessario, proprio come una goccia, per quanto piccola, è necessaria alla formazione degli oceani.Interceda per noi il nostro Patrono san Benedetto, vigili egli sui nostri propositi e sulle nostre azioni, ci aiuti a mantenere i nostri passi sulla via dell’amore, fonte di ogni vero bene, e ci benedica. Amen”

La Celebrazione Eucaristica, animata dal Coro polifonico “Annibale Messore”, si è svolta nel rispetto delle norme anti Covid-19 e della capienza massima prevista nella Basilica Cattedrale di Montecassino, alla presenza di autorità militari e civili della Città di Cassino, oltre agli oblati dell’abbazia, ai religiosi e ai tanti amici e fedeli vicini alla Comunità Monastica.
Importante il supporto del Comitato di Cassino della Croce Rossa Italiana, che al termine della Celebrazione ha chiesto all’Abate Donato di benedire una nuova ambulanza.
Foto Mastronardi